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CCPI 2021: l’UE balza dal 21° al 16 ° posto e l’Italia ne perde uno (27°)

In vista del Vertice virtuale sul clima del 12 dicembre 2020, voluto dal Segretario ONU Guterres e dal premier britannico Johnson nell’Anniversario dell’Accordo di Parigi, l’annuale Climate Change Performace Index (CCPI) non riesce ancora a 5 anni di distanza ad individuare un Paese che sia su un percorso conforme all’obiettivo concordato nell’occasione.

Nonostante la Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite(COP26) di Glasgow sia stata rinviata a novembre 2021 a causa della pandemia di COVID-19, l’annuale Climate Change Performance Index (CCPI), il Rapporto che veniva presentato nel corso dell’evento, è stato egualmente pubblicato il 7 dicembre 2020, in vista del Vertice sul clima virtuale, in agenda il 12 dicembre 2020 per il 5° Anniversario dell’Accordo di Parigi, co-organizzato da ONU, Gran Bretagna e Francia, in partnership con Cile (Presidenza dell’UNFCCC 2020) e Italia (Paese di svolgimento della pre-COP26), con l’obiettivo di invitare i Governi nazionali a presentare piani climatici più ambiziosi, nonché piani di ripresa post-Covid allineati agli obiettivi di limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C.   

Redatto da Germanwatch, ONG con sede a Bonn che si prefigge di promuovere l’equità globale e la salvaguardia dei mezzi di sussistenza), Climate Action Network Europe (CAN Europe), Rete che riunisce 140 organizzazioni di 25 Paesi, con l’obiettivo di arrestare gli effetti più pericolosi dei cambiamenti climatici e NewClimate Institute, Istituto di ricerca sui cambiamenti climatici che si adopera per l’implementazione dell’Accordo di Parigi e per il sostegno allo sviluppo sostenibile, è uno strumento di monitoraggio indipendente sulle prestazioni di protezione del clima di 57 Paesi e dell’UE che assommano nell’insieme il 90% delle emissioni di gas serra, il CCPI mira a migliorare la trasparenza nella politica climatica internazionale, consentendo il confronto degli sforzi e dei progressi di protezione del clima dei singoli Paesi.

Il CCPI viene calcolato attraverso un indice complessivo a cui concorrono 4 diversi parametri e 14 indicatori:
– i livelli di emissione che concorrono al 40% del peso complessivo (20% per il livello di emissione dell’anno preso in considerazione e 20% per il trend nel corso degli anni);
– il 20% viene assegnato per lo sviluppo delle rinnovabili (10%) e dell’efficienza energetica (10%);
– il 20% per i consumi energetici;
– il 20% alle politiche climatiche (10% per quelle nazionali e 10% per quelle internazionali), basate su un sondaggio tra oltre 200 esperti climatici di ONG e think tank dei rispettivi Paesi interessati.

A, 5 anni di distanza dall’Accordo di Parigi nessun Paese è su un percorso conforme agli obiettivi concordati. Le concentrazioni di gas serra in atmosfera hanno continuato a crescere anche se le emissioni di 32 dei Paesi esaminati sono calate e in 38 Paesi più del 10% de ma in realtà stanno diminuendo in più della metà dei paesi (32) esaminati. In due terzi dei paesi (38) più 10% dell’energia primaria totale richiesta ora proviene da fonti rinnovabili e in 12 di questi le energie rinnovabili rappresentano più del 20%.

Ora è tanto più cruciale che la ripresa economica mondiale non solo supporti il ​​rilancio delle economie, ma si stia anche preparando allo stesso tempo per un’economia globale a zero emissioni di carbonio – ha sottolineato il Prof. Niklas Höhne del NewClimate Institute – Se la maggior parte delle azioni di recupero esaminate per l’Indice stiano riducendo o aumentando le emissioni di gas ad effetto serra non è ancora chiaro, ma c’è ancora spazio per modellare i pacchetti di recupero e molte buone misure che sono in discussione“.

Anche nell’edizione di quest’anno, i primi 3 posti della classifica non sono stati assegnati ad alcun Paese, perché nessuno è riuscito a mettere in campo politiche in grado di contribuire seriamente a vincere la sfida climatica per mantenere il riscaldamento globale entro i +2 °C, figuriamoci per fare ogni sforzo di limitarlo a +1,5 °C, come prevede l’Accordo di Parigi.

Guida la classifica, ormai da 4 anni consecutivamente la Svezia (4° posto) che tuttavia non è un “modello”. Come ogni altro Paese non è ancora sulla buona strada per il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, nonostante le normative standard di emissioni di gas serra, di energia rinnovabile e di politica climatica. L’l’elevatissimo consumo di energia pro capite (49° posto) impedisce al Paese di ottenere una valutazione ancora migliore.

Segue la Gran Bretagna (5° posto) in ascesa di due posizioni a scapito di Danimarca (6°) e Marocco (7°), in virtù del punteggio conseguito per le energie rinnovabili per le quali sono previsti diversi piani di attuazione e per l’annunciata introduzione di uno schema nazionale di tariffazione del carbonio. Tuttavia, i finanziamenti attuali non sono abbastanza ambiziosi e attualmente supera molti Paesi europei nel fornire sussidi ai combustibili fossili. 

Troviamo quindi in ordine decrescente Norvegia (in ascesa), Cile (in ascesa), India (in discesa), Finlandia (in discesa), Malta (in ascesa), Lettonia (in ascesa), Svizzera (in ascesa), Lituania (in discesa), Unione europea (in ascesa) e Portogallo che chiude il gruppo dei Paesi “più virtuosi” e che è stato quello che ha fatto i progressi maggiori, passando dal 25° al 17° posto, essenzialmente per la sua ambiziosa politica climatica.

I redattori del report fanno osservare che di questo gruppo fanno parte solo 3 Paesi del G20 e ben 6 sono inseriti in quello dei “meno responsabili”, dove troviamo USA (ultimo posto) Arabia Saudita (60°), Canada (58°), Australia (54°),  Corea del Sud (53°) e Russia (52°). Il Giappone è uscito quest’anno da tale “cattiva compagnia”, pur inserendosi nel gruppo dei Paesi a “bassa performance”, per essere riuscito a scalare 6 posizioni (dal 51° al 45° posto), per aver annunciato i piani per la decarbonizzare del Paese entro il 2050, e il piano di mitigazione a lungo termine per ridurre le emissioni dell’80%.

Pessime sono state le performance per Slovenia (51°posto), Ungheria (50°), Polonia (48°) Repubblica Ceca (47°) che diventano gli Stati membri dell’UE con i peggiori risultati a causa dell’aumento delle emissioni di gas a effetto serra, del basso livello di investimenti nelle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica e della mancanza di politiche nazionali sul clima. In ribasso Spagna (41°), Belgio (40°) e Grecia (dal 34°).

L’Unione europea (UE-27) fa un balzo in avanti di 6 posizioni rispetto allo scorso anno, per effetto del ruolo positivo che sta svolgendo nei negoziati internazionali sul clima e per le politiche climatiche annunciate che mirano a raggiungere la neutralità climatica al 2050 e dell’annuncio di aumentare il suo obiettivo di riduzione delle emissioni per il 2030 al 55% rispetto al previsto 40%. Tuttavia, sono mancate chiare garanzie contro gli investimenti in combustibili fossili e altre industrie inquinanti durante la crisi economica indotta dal COVID-19, che rischiano di mettere in pericolo il raggiungimento dello zero netto da parte dell’UE.

L’ultimo indice delle prestazioni sui cambiamenti climatici mostra chiaramente che l’UE si trova a un bivio – ha affermato Jan Burck di Germanwatch, uno degli autori dell’indice – L’UE può diventare un modello nella protezione del clima con misure di recupero verde dopo la crisi del coronavirus, fissando un obiettivo climatico ambizioso per il 2030 in linea con il limite di 1,5 ° C e una buona attuazione e ulteriore sviluppo del suo Green Deal. Ma può anche inciampare gravemente se persegue il greenwashing invece della ripresa verde e implementa obiettivi e strumenti inadeguati nel Green Deal europeo

Di contro, ancora una volta, la performance degli Stati Uniti è disastrosa: sotto la Presidenza di Trump è la seconda volta consecutiva che gli Stati Uniti si classificano ultimi. In tutte e quattro le categorie, eccetto le energie rinnovabili (“bassa”), gli USA finiscono in fondo alla graduatori (“molto bassa”) ed il Paese, oltre l’Australia e l’Algeria, a ricevere la peggiore valutazione di “molto bassa” sia in politica climatica nazionale e internazionale. I piani del neo-Presidente eletto Joe Biden quali annunciati durante la campagna elettorale presentano grandi opportunità per migliorare significativamente questa valutazione, ma con l’eventuale maggioranza repubblicana al Senato, non è chiaro quanto di tale programma attuato.

L’Italia retrocede di una posizione ed occupa il 27° posto, ricevendo valutazioni medie in tutte le categorie. Il Piano Nazionale integrato per l’energia e il clima (PNIEC) al 2030 presenta alcuni segnali positivi, tra cui l’eliminazione graduale del carbone prevista per il 2025 e obiettivi nel settore dei trasporti che mirano a 6 milioni di veicoli elettrici e al 22% di energia rinnovabile nei trasporti. Gli esperti notano, tuttavia, che per i trasporti non ci sono politiche specifiche per l’attuazione e che quello dell’eliminazione graduale del carbone viene abbinata alla maggiore capacità aggiuntiva di gas. Ciò è fortemente contrario a un’efficace transizione energetica dai combustibili fossili. Complessivamente, il PNIEC viene considerato insufficiente per il raggiungimento degli obiettivi fissati nell’Accordo di Parigi, data anche la mancanza di un obiettivo di riduzione delle emissioni a lungo termine e su scala economica, come pure sono considerate insufficienti le misure sui consumi energetici. Gli esperti riconoscono, comunque, il ruolo proattivo dell’Italia nei negoziati dell’UE a livello internazionale per il miglioramento del impegni incondizionati nazionali (NDC) previsti dall’Accordo di Parigi, nonché l’adesione dell’Italia alla Carbon Neutrality Coalition, che ha permesso al nostro Paese di ottenere una valutazione complessiva media dell’Italia nella categoria Climate Policy.

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