Uno Studio di economisti evidenzia che i modelli economici utilizzati per quantificare gli impatti dei cambiamenti climatici non tengono conto che il superamento dei punti di non ritorno (tipping point) provocherebbe danni molto più gravi. Gli autori sollecitano l’IPCC a considerarlo nella prossima relazione di valutazione (AR6).
I responsabili politici vengono disinformati dai risultati di modelli economici che sottovalutano i rischi futuri degli impatti dei cambiamenti climatici.
È quanto emerge dallo Studio “Recommendations for Improving the Treatment of Risk and Uncertainty in Economic Estimates of Climate Impacts in the Sixth Intergovernmental Panel on Climate Change Assessment Report”, pubblicato il 4 giugno 2018 sulla Review of Environmental Economics and Policy, la Rivista ufficiale dell’European Association of Environmental and Resource Economists (EAERE), Associazione scientifica internazionale che si pone tra i suoi obiettivi anche di contribuire allo sviluppo dell’economia dell’ambiente e delle risorse naturali come scienza, promuovendone l’applicazione.
“Le discrepanze tra le stime dell’impatto fisico e quello sull’economia, correlati ai cambiamenti climatici, sono ampie ed importanti – ha affermato Thomas Stoerk dell’Environmental Defense Fund, una delle Ong ambientaliste più vecchie e potenti, che può contare su 2 milioni di membri e uno staff di 700 scienziati e ricercatori – Peraltro, gli impatti fisici spesso non vengono convertiti in termini monetari e sono stati ampiamente ignorati dagli economisti del clima”.
Ad esempio, la V Relazione di valutazione (AR5) del Gruppo Intergovernativo di esperti delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (IPCC) ha affermato che i rischi associati agli impatti “globali aggregati” o economici erano “moderati” con un aumento di 3 °C rispetto ai livelli pre-industriali, mentre i rischi per la biodiversità e gli ecosistemi, per gli eventi meteorologici estremi, per le nazioni in via di sviluppo e quelle più povere, e gli “eventi ad alto impatto su larga scala” sono stati segnalati come “elevati”.
Uno dei motivi di queste discrepanze, secondo lo Studio, deve essere imputato al fatto che i modelli economici utilizzati non tengono conto dell’eventuale superamento dei punti di non ritorno (tipping point) oltrepassati i quali le dinamiche innescate irreversibili, provocando danni ambientali ed economici molto più gravi.
Il modello Dynamic Integrated Climate-Economy (DICE), ad esempio, prevede che la produzione economica globale diminuirà del 10% se il mondo dovesse riscaldarsi di 6 °C . Tuttavia, la ricerca “Temperature impacts on economic growth warrant stringent mitigation policy”, segnalata dagli autori, ha scoperto che quando veniva inserita nella riprogrammazione i punti di non ritorno, i danni economici globale aumentavano fino al 50%.
“Pertanto le raccomandazioni sulla politica climatica basate sul quadro attuale sottovalutano seriamente il valore economico dei danni climatici“, hanno sottolineato gli autori che hanno sollecitato l’IPCC, inviando l’articolo accompagnato da una lettera ai 2 co-Presidenti (Proff. Hans-Otto Pörtner e Debra Roberts) del Gruppo di Lavoro II, quello che si occupa di impatti, adattamento e vulnerabilità, in vista della redazione del prossimo Rapporto (AR6) che dovrebbe avvenire tra il 2021 e il 2022 , a “rafforzare la propria attenzione sul processo decisionale in condizioni di incertezza“, e a ” concentrarsi sulla valutazione di come l’incertezza stessa influenzi le stime dei costi economici e finanziari dei cambiamenti climatici“. Inoltre, la preparazione del Rapporto “potrebbe fungere da ampio forum, riunendo scienziati ed economisti con l’obiettivo di quantificare gli impatti dei cambiamenti climatici“.
In verità a parlare per primo che “I modelli economici attuali tendono a sottostimare gravemente sia i potenziali impatti dei cambiamenti climatici pericolosi che i più ampi benefici di una transizione verso una crescita a basso tenore di carbonio”, era stato Sir Nicholas Stern, autore del famoso Rapporto sui costi economici dei cambiamenti climatici (2006), divenuto il testo di riferimento per policy maker e ong ambientaliste.
In un articolo il Presidente del Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment presso la London School of Economics, di cui uno degli autori dello Studio (Bob Ward) è il Direttore della comunicazione, sottolineava che i modelli economici per i cambiamenti climatici dovevano essere radicalmente migliorati, dal momento che “i miglioramenti progressivi dell’attuale generazione di modelli integrati potrebbero non essere sufficienti” ad aiutare i responsabili politici nazionali nell’attuazione efficace dell’Accordo di Parigi.
La raccomandazione degli autori dello Studio (il terzo è Gernot Wagner della Harvard University) arriva qualche giorno dopo che un team di ricercatori della Stanford University ha pubblicato uno dei primi studi che abbiano considerato i benefici economici correlati al tener fede all’obiettivo dell’Accordo di Parigi di fare tutto il possibile per limitare l’aumento del global warming a 1,5 °C alla fine del secolo, e che ammonterebbero a migliaia di miliardi di dollari.