Un nuovo Studio che ha distinto per la prima volta il contributo delle emissioni da combustibili fossili da quello delle altre emissioni antropogeniche conferma che molte morti potrebbero essere evitate se la popolazione non fosse esposta ad alti livelli di inquinamento atmosferico a lungo termine.
La minaccia per la salute rappresentata dall’inquinamento atmosferico e i suoi collegamenti con una serie di problemi respiratori, cardio vascolari e persino di salute mentale sono stati da tempo compresi e ora la ricerca scientifica mette in guardia fino a che punto l’aria inquinata possa esacerbare il devastante bilancio delle vittime del Covid-19.
Lo Studio “Regional and global contributions of air pollution to risk of death from COVID-19” pubblicato il 27 ottobre 2020 su Cardiovascular Research e condotto da un gruppo di ricercatori coordinato da Andrea Pozzer del Centro internazionale di fisica teoretica di Trieste e Max Planck Institute – Dipartimento di Chimica e Chimica dell’Atmosfera di Magonza, stima che circa il 15% dei decessi mondiali per il Covid-19 potrebbe essere attribuito all’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico, con la percentuale più alta in Asia orientale (27%) mentre in Europa è del 19% e in Nord America del 17%.
“I risultati del nostro Studio – sottolineano gli autori – suggeriscono che l’inquinamento atmosferico è un importante co-fattore che aumenta il rischio di mortalità da Covid-19, fornendo un’ulteriore motivazione per combinare politiche ambiziose di riduzione dell’inquinamento atmosferico con le misure per controllare la diffusione della pandemia”.
I ricercatori hanno combinato i dati epidemiologici di precedenti studi statunitensi e cinesi sui collegamenti dell’inquinamento atmosferico con Covid-19 e l’epidemia di SARS nel 2003, insieme ai dati sui livelli di particolato e sulle condizioni atmosferiche.
Un precedente Studio, pubblicato lo scorso aprile come pre-stampa, condotto dal Dipartimento di Biostatistiche dell’Harvard T.H Chan School of Public Health, aveva correlato la maggiore esposizione al PM2,5 ai casi severi di Covid-19 negli Stati Uniti. La principale autrice Federica Domenici, co-Direttore della Harvard Data Science Initiative, che è anche co-autrice di questo nuovo studio aveva dichiarato: “Abbiamo scoperto che un solo milligrammo per metro cubo di polveri sottili nell’aria determina un aumento del 15% del tasso di mortalità da Covid-19. I risultati suggeriscono che l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico aumenta la vulnerabilità al verificarsi dei più gravi esiti da Covid-19. Sappiamo quali sono le contee che hanno livelli di inquinamento storicamente più alti elevati. Per cui se non hanno ancora avuto un elevato numero di morti, potrebbero tuttavia essere quelle maggiormente esposte a tali rischi”.
Le stime per i singoli Paesi mostrano che l’inquinamento atmosferico ha contribuito al 29% delle morti per coronavirus nella Repubblica Ceca, al 27% in Cina e al 26% in Germania, che sono stati i Paesi con i tassi più alti stimati. Israele (6%), Australia (3%) e Nuova Zelanda (1%) sono risultati i Paesi con i tassi più bassi. Nella fascia intermedia si sono collocati Stati Uniti (18%), Italia (16%), Regno Unito (14%) e Brasile (12%).
“Poiché il numero di morti per Covid-19 è in continuo aumento, non è possibile fornire i numeri esatti o definitivi di decessi per Covid-19, che per ogni Paese possono essere attribuiti all’inquinamento atmosferico – ha spiegato il professor Jos Lelieveld, Direttore del Max Planck Institute per la Chimica e co-autore dello Studio – Tuttavia, nel Regno Unito ad esempio ci sono stati oltre 44.000 decessi dovuti al nuovo coronavirus e stimiamo che la percentuale causata dall’inquinamento atmosferico sia del 14%, corrispondente a più di 6.100 decessi”..
“Sebbene i nostri risultati abbiano incertezze, possiamo chiaramente distinguere il contributo dell’inquinamento atmosferico alla mortalità da Covid-19 – ha sottolineato Andrea Pozzer – Si tratta di un effetto indiretto: le nostre stime mostrano l’importanza dell’inquinamento sugli esiti letali dell’infezione virale per la salute, poiché aggrava la coesistenza di più patologie. La mortalità effettiva è influenzata da molti fattori aggiuntivi come il sistema sanitario di un Paese”.
Lo Studio è il primo nel suo genere a distinguere tra fonti di inquinamento atmosferico legate ai combustibili fossili e le altre fonti origine antropica, sostiene che la pandemia dimostra inoltre la missione di efficaci politiche di riduzione delle emissioni antropogeniche, responsabili sia dell’inquinamento atmosferico che dei cambiamenti climatici, devono essere accelerate.
“Non esistono vaccini contro la cattiva qualità dell’aria e i cambiamenti climatici – conclude lo Studio – Il rimedio è mitigare le emissioni. La transizione verso un’economia verde con fonti energetiche pulite e rinnovabili favorirà sia l’ambiente che la salute pubblica a livello locale attraverso una migliore qualità dell’aria e a livello globale limitando i cambiamenti climatici“.
Al di là del Covid-19 che prima o poi è destinato a scomparire, il problema delle morti premature da inquinamento atmosferico è annoso e perdurante, come ha attestato lo State of Global Air 2020 (SoGA), pubblicato la scorsa settimana, che ha confermato come l’inquinamento atmosferico è divenuto con 6,67 milioni il 4° principale fattore di rischio di morte, dopo l’ipertensione (10,8 milioni), il tabacco (7,94 milioni) e cattiva alimentazione (7,94 milioni).
Foto di copertina: Anne Nygård (Unsplash)