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Ponte Morandi: CNR-ITC lancia l’allarme sulla sicurezza dei viadotti italiani

Ponte Morandi

Il ponte Morandi o il “ponte di Brooklin” come era denominato da chi lo percorreva quotidianamente quale tratto autostradale della A10 Genova-Ventimiglia che, scavalcando il Polcevera per una lunghezza di 1.182 metri e un’altezza al piano stradale di 45 metri, univa la collina di Belvedere (Sampierdarena) con quella di Coronata (Cornigliano) con due corsie larghe oltre sette metri per senso di marcia, è crollato il 14 agosto 2018 attorno alle 11.30 per un tratto di 200 metri, trascinando nella caduta auto e camion, e purtroppo i conducenti e i passeggeri che in quel momento lo percorrevano (sono finora 43 i morti accertati, 9 i feriti di cui 4 gravi).

Tra le numerose dichiarazioni che dopo la tragedia si sono alternate e diffuse, merita segnalazione quella rilasciata nello stesso giorno in una nota stampa dal Prof. Ing. Antonio Occhiuzzi, Direttore dell’Istituto di Tecnologia delle Costruzioni del CNR, che anticipava quella che al momento secondo tecnici ed esperti è la causa più accreditata del cedimento, e che soprattutto lanciava un allarme sullo stato di obsolescenza della maggior parte di ponti e viadotti costruiti in Italia a cavallo degli anni ’60.

Scrive il Direttore che il ponte Morandi deve il suo nome al geniale progettista/esecutore dell’opera, uno dei nomi che, insieme a Freyssinet (Francia), Leonhardt (Germania) e Maillart (Svizzera), nel XX secolo ha modificato la concezione dei ponti in Europa e nel mondo. Realizzato tra il 1963 al 1967, è un esempio di razionalismo ‘assoluto’: l’intera, essenziale geometria ripercorre le linee di forza che sono capaci di garantire l’equilibrio dell’opera sotto l’azione del peso proprio e del traffico stradale.

Il viadotto si compone di due tratti di accesso e di uscita e di una parte centrale, quella più caratteristica, formata da 6 tratti, sostenuti a due a due da un pilone centrale dal quale si dipartono gli elementi inclinati denominati “stralli” (ndr: il termine deriva dalla marineria e indicano i cavi che collegano obliquamente la prua dell’imbarcazione la cima dell’albero). Due le particolarità strutturali di questo ponte: gli stralli, che a differenza di quanto avviene per i ponti in acciaio non formano un ventaglio o un’arpa, sono solo una coppia per lato e sono realizzati in calcestruzzo armato precompresso; le modalità di realizzazione dell’impalcato (la parte che sostiene direttamente il piano viabile) in calcestruzzo armato precompresso, secondo un brevetto ideato dallo stesso Morandi.

Il crollo, per quanto si può capire assolutamente improvviso, può dipendere da moltissime causa diverse. Preliminarmente, però, è possibile fare qualche considerazione di carattere generale.

Gli stralli in calcestruzzo armato precompresso, realizzati anche per altri viadotti analoghi (sul lago di Maracaibo in Venezuela, ma anche in Basilicata, per esempio), hanno mostrato una durabilità relativamente ridotta. E la statica di un ponte di questo tipo dipende fondamentalmente dal comportamento e dallo “stato di salute” degli stralli.

Nel caso in questione, in particolare, una parte degli stralli è stata oggetto di un importante e chiaramente visibile intervento di rinforzo, ma il tratto crollato è un altro. È necessario capire perché, in presenza di elementi che hanno indotto a rinforzare alcuni stralli, non siano state operate le medesime cure sugli altri, gemelli e coevi.

Risulta inoltre che il ponte Morandi fosse sotto continua e costante osservazione, e non c’è alcun motivo di dubitare che la società concessionaria abbia utilizzato tutte le tecnologie oggi disponibili al riguardo. Il crollo improvviso, quindi, fa dedurre che i sistemi di monitoraggio e sorveglianza adottati non sono ancora sufficientemente evoluti per scongiurare tragedie come quella di stamattina.

A carattere ancor più generale, va ricordato che la sequenza di crolli di infrastrutture stradali italiane sta assumendo, da alcuni anni, un carattere di preoccupante “regolarità”: nel luglio 2014 è crollata una campata del viadotto Petrulla, sulla strada statale 626 tra Ravanusa e Licata (Agrigento), spezzandosi a metà per effetto della crisi del sistema di precompressione; nell’ottobre 2016 è crollato un cavalcavia ad Annone (Lecco) per effetto di un carico eccezionale incompatibile con la resistenza della struttura, che però è risultata molto invecchiata rispetto all’originaria capacità; nel marzo 2017 è crollato un sovrappasso dell’autostrada adriatica, ma per effetto di un evento accidentale durante i lavori di manutenzione; nell’aprile 2017 è crollata una campata della tangenziale di Fossano (Cuneo), spezzandosi a metà in assenza di veicoli in transito e con modalità molto simili a quelle del viadotto Petrulla. Oggi è crollata una parte del viadotto Morandi, che probabilmente comporterà la demolizione completa e la sostituzione dell’opera. L’elemento in comune alla fenomenologia descritta è l’età (media) delle opere: gran parte delle infrastrutture viarie italiane (i ponti stradali) ha superato i 50 anni di età, che corrispondono alla vita utile associabile alle opere in calcestruzzo armato realizzate con le tecnologie disponibili nel secondo dopoguerra (anni ’50 e ’60).

In pratica, decine di migliaia di ponti in Italia hanno superato, oggi, la durata di vita per la quale sono stati progettati e costruiti, secondo un equilibrio tra costi ed esigenze della ricostruzione nazionale dopo la seconda guerra mondiale e la durabilità delle opere. In moltissimi casi, i costi prevedibili per la manutenzione straordinaria che sarebbe necessaria a questi ponti superano quelli associabili alla demolizione e ricostruzione; quelli ricostruiti, inoltre, sarebbero dimensionati per i carichi dei veicoli attuali, molto maggiori di quelli presenti sulla rete stradale italiana nella metà del secolo scorso.

Il problema ha dimensioni grandissime: il costo di un ponte è pari a circa 2.000 euro/mq; pertanto, ipotizzando una dimensione “media” di 800 mq e un numero di ponti pari a 10.000, le cifre necessarie per l’ammodernamento dei ponti stradali in Italia sarebbero espresse in decine di miliardi di euro. Per evitare tragedie come quella accaduta stamattina sarebbe indispensabile – conclude il Prof. Occhiuzzi – una sorta di “piano Marshall” per le infrastrutture stradali italiane, basato su una sostituzione di gran parte dei ponti italiani con nuove opere caratterizzate da una vita utile di 100 anni. Così come avvenuto negli anni ’50 e ’60, d’altra parte, le ripercussioni positive sull’economia nazionale, ma anche quelle sull’indebitamento, sarebbero significative”.

C’è da osservare, inoltre, che l’attuazione di una politica di prevenzione dai rischi, volta alla sicurezza delle infrastrutture e della salute dei cittadini, avrebbe pur sempre costi inferiori in termini di approccio costi/benefici a quelli per i danni attesi che comprendono oltre a quelli di ripristino delle infrastrutture di comunicazione, quelli alla proprietà privata, alle attività produttive, alla gestione delle emergenze che andranno affrontate, in termini di soccorso e assistenza alla popolazione interessata dagli eventi.

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