Secondo un nuovo studio se si continuasse con l’attuale trend delle emissioni di carbonio, al 2100 si perderebbe il 7% del PIL globale, interessando tutti i Paesi, ricchi o poveri, caldi o freddi, con Canada e Stati Uniti che vedrebbero una contrazione superiore al 10%.
Al Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Ginevra, 24 giugno -12 luglio 2019) è stato presentato il Rapporto “Cambiamenti climatici e povertà” dove si sottolineava che i cambiamenti climatici avranno il maggiore impatto sui Paesi poveri delle aree geografiche più calde, mentre i Paesi ricchi delle zone temperate non avranno contraccolpi pesanti, o quanto meno avranno i mezzi necessari per adattarvisi.
“In modo perverso, mentre le persone in povertà sono responsabili solo in piccola parte delle emissioni globali, sopportano il peso dei cambiamenti climatici senza avere la minima capacità di proteggersi – aveva affermato nell’occasione lo Special Rapporteur Philip Alston – Rischiamo uno scenario di ‘apartheid climatico’ “in cui i ricchi possono pagare per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti, mentre il resto del mondo è lasciato a soffrire“. “in cui i ricchi possono pagare per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti, mentre il resto del mondo è lasciato a soffrire“.
Ora, il nuovo Studio “LongTerm Macroeconomic Effects of Climate Change: A Cross-Country Analysis”, pubblicato il 22 agosto 2019 dal National Bureau of Economic Research (NBER)e condotto da un team internazionale di ricercatori, coordinato dall’Università di Cambridge,sostiene che le cose non stanno esattamente così, poiché tutti i Paesi – ricchi o poveri, caldi o freddi – soffriranno economicamente entro il 2100 se non saranno raggiunti gli obiettivi climatici stabiliti nell’Accordo di Parigi.
Continuando con l’attuale andamento delle emissioni, i ricercatori hanno calcolato che al 2100 il PIL globale si ridurrà del 7% ed alcuni Paesi ricchi, come Stati Uniti e Canada saranno tra i più colpiti con perdite del PIL, rispettivamente, del 10,5% e del 13%. Viceversa, se gli obiettivi climatici fossero conseguiti, le perdite si ridurrebbero per i due Paesi nordamericani solo del 2%.
“Sia che si tratti di sbalzi di freddo o di ondate di calore, siccità, inondazioni o catastrofi naturali, tutte le deviazioni dalla normalità storica delle condizioni climatiche avranno effetti economici negativi – ha affermato Kamiar Mohaddes, Docente alla Facoltà di Economia dell’Università di Cambridge e co-autore dello Studio – Senza politiche di mitigazione e adattamento, è probabile che molti Paesi subiranno elevati aumenti di temperatura rispetto ai dati storici, con conseguenti gravi perdite di reddito. Ciò vale sia per i Paesi ricchi che poveri, sia per le regioni calde che per quelle fredde“.
Utilizzando dati provenienti da 174 Paesi risalenti al 1960, il team di ricerca ha stimato il legame tra temperature al di sopra della norma e livelli di reddito. Hanno quindi modellato gli effetti sul reddito se si prosegue con le attuali emissioni e quelli conseguenti ad uno scenario in cui il mondo agisca coralmente e aderisca senza indugi all’Accordo di Parigi.
Pur riconoscono che le economie seguiranno un approccio di adattamento ai cambiamenti climatici, i ricercatori sostengono che il loro lavoro di modellizzazione indica che l’adattamento da solo non sarà sufficiente. Il consenso scientifico suggerisce che l’adattamento ai cambiamenti climatici richiede in media 30 anni affinché tutti i settori, dalle infrastrutture alle pratiche colturali, possano adeguarsi, seppur lentamente. Quantunque questo adeguamento avvenisse più rapidamente in soli 20 anni, gli Stati Uniti perderebbero comunque quasi il 7% della propria economia, e il PIL globale si ridurrebbe del 4% alla fine del secolo.
Il team di ricerca ha intrapreso un approccio più mirato nei confronti degli Stati Uniti per misurare la validità dei risultati dal momento che le informazioni disponibili sul Paese hanno permesso di confrontare se le attività economiche nelle aree calde o umide rispondessero alle fluttuazioni di temperatura rispetto all’andamento storico allo stesso modo di quelle nelle aree fredde o asciutte all’interno di una singola grande nazione.
I ricercatori hanno quindi esaminato 10 settori che vanno dalla produzione e servizi alla vendita al dettaglio e all’ingrosso in 48 Stati USA e hanno scoperto che ogni settore in ogni Stato ha sofferto economicamente di almeno un aspetto correlato ai cambiamenti climatici, sia che si tratti di ondate di calore, inondazioni, siccità o freddo intenso.
Seppur ridimensionati, sono questi gli effetti che creeranno le perdite economiche a livello nazionale e globale, anche nelle economie avanzate e, presumibilmente resilienti, affermano i ricercatori.
Tra gli altri maggiori perdenti tra i Paesi sviluppati: Nuova Zelanda, Giappone e India (circa il 10%); Svizzera (-12%); Russia (-9%). Per l’UE la riduzione del PIL si attesterebbe al 4,6%.
E non c’è da aspettarsi che il trend del global warming rallenti in futuro, come denunciano gli ultimi dati meteorologici forniti dalla NOAA che attestano come il mese di luglio 2019 è stato il mese di luglio più caldo di sempre a livello globale.
“L’economia dei cambiamenti climatici va ben oltre l’impatto sulla crescita delle coltivazioni. Le forti e intense piogge le attività di estrazione dei minerali, influenzando i prezzi delle materie prime, gli sbalzi termici aumentano le spese per riscaldamento/raffrescamento, e le ondate di calore mettono a dura prova le reti infrastrutturali di trasporto con interruzioni. Tutte queste conseguenze si assommano – ha aggiunto Mohaddes – L’idea che nazioni ricche e temperate non siano economicamente toccate dai cambiamenti climatici, o addirittura che potrebbero raddoppiare e triplicare la loro ricchezza, è del tutto infondata. Se le nazioni avanzate vogliono evitare gravi danni economici nei prossimi decenni, l’Accordo di Parigi è un buon inizio“.