Energy & Strategy Group del POLIMI ha presentato la prima edizione del Circular Economy Report che affronta alcuni dei principali trend che stanno ridisegnando il mondo delle imprese verso questo modello produttivo, per valutare il potenziale di mercato, teorico e raggiungibile, dell’Economia Circolare a livello nazionale per i settori oggetto di analisi.
L’Italia è pronta per l’economia circolare, nuova parola d’ordine che sta progressivamente sostituendo la più generica sostenibilità ambientale?
E quale potenziale potrebbe esprimere nel nostro Paese la transizione verso questo modello produttivo?
A queste domande tenta di dare le prime risposte la La prima edizione del “Circular Economy Report” di Energy & Strategy Group del POLIMI, presentata il 28 gennaio 2021 nel corso del Convegno online “Modelli di business, soluzioni tecnologiche e potenziale dell’economia circolare nel nostro Paese”, che ha coinvolto, come sempre nel dibattito, le imprese Partner della ricerca per discutere e approfondire le analisi svolte e renderle strumento di lavoro per tutti coloro che operano o intendono operare nell’ambito specifico oggetto dello studio.
Per singolare coincidenza, nello stesso giorno ai “Dialoghi di Davos” online del World Economic Forum (WEF), che quest’anno hanno sostituito i tradizionali incontri in presenza, la Ellen McArthur Foundation (EMF) ha presentato il suo ultimo Documento sull’argomento dal titolo “Universal circular economy policy goals: enabling the transition to scale”, con l’obiettivo di indicare una tabella di marcia comune nello sviluppo delle politiche per una transizione più veloce verso un’economia circolare, essenziale per raggiungere alcuni degli obiettivi di sviluppo sostenibile, di sicurezza sanitaria, di conservazione della biodiversità, di mitigazione dei cambiamenti climatici, di sviluppo industriale e di creare nuovi posti di lavoro.
Due giorni prima, sempre ai Dialoghi di Davos, Circle Economy ha presentato “The Circularity Gap Report 2021” che mostra come il tasso di circolarità dell’economia globale sia fermo all’8,6%, mentre raddoppiandolo si potrebbe ridurre le emissioni globali a livello tale da conseguire l’obiettivo climatico dell’Accordo di Parigi al 2032.
I finanziamenti che la transizione verso l’economia circolare porta in dote a livello europeo sono sostanziosi: 454 miliardi di euro di fondi strutturali e di investimento per oltre 500 programmi in tutto il continente, più 183 miliardi di cofinanziamenti nazionali da parte degli Stati membri (637 miliardi in totale), cui si aggiungono i 26 a carico del Bilancio pluriennale (2021-2027)dell’UE e i 7,5 della BEI (banca Europea degli Investimenti) dedicati al fondo europeo per gli investimenti strategici. Ciliegina sulla torta, i 900 miliardi stanziati dalla Commissione europea per il cosiddetto Recovery Plan (RRF) per la transizione ecologica nel prossimo decennio, di cui l’economia circolare è uno dei cardini. Di questi all’Italia andranno 196 miliardi di euro a cui si aggiungeranno i Fondi di Coesione e Sviluppo e quelli del REACT-EU, per un totale di circa 224 miliardi di euro.
“Con il Circular economy report inauguriamo un nuovo filone di ricerca in cui è stato decisivo il contributo delle nostre aziende partner – ha dichiarato Davide Chiaroni Vicedirettore dell’E&S Group e curatore del Circular Economy Report l’indagine – Capire di cosa realmente si stia parlando (non del ciclo dei rifiuti, per intenderci, che è solo la parte finale e a minor valore aggiunto del processo) è determinante e chiarisce immediatamente che in Italia la vera economia circolare è ancora di là da venire e richiede un tempo e un ammontare di investimenti ben più significativi di quanto oggi sia in campo“.
La circular economy “non è la panacea di tutti i mali, la miglior soluzione possibile per ogni settore, ambito di consumo o attore in gioco. È un percorso lungo e complesso che però occorre intraprendere: dall’inizio del ‘900 la popolazione mondiale è cresciuta di 4,5 volte, il consumo di risorse naturali, invece, di quasi il triplo”.
“Si tratta di cambiare radicalmente prospettiva – ha proseguito Chiaroni – rispetto all’attuale economia lineare: mantenere i prodotti il più a lungo possibile nel circuito attraverso l’estensione della loro vita, la ridistribuzione, il riutilizzo, la rigenerazione e, soltanto alla fine, il riciclo. In questo modo, anche connettendo più filiere che traggano beneficio e condividano parte delle risorse, la cosiddetta simbiosi industriale, risulta possibile sostenere la stessa domanda di beni e servizi con un minor prelievo di risorse naturali. Non è quindi una ricetta di austerity, bensì di espansione della domanda, e qui sta la principale differenza con gli altri paradigmi sostenibili“.
In Italia “non c’è ancora un ecosistema circolare di player che lavorino insieme e spingano intere filiere tecnologico-produttive verso il nuovo approccio industriale. A mancare sono soprattutto le piattaforme, ossia gli attori deputati a costituire un bilanciamento tra la domanda e l’offerta di prodotti, materiali o risorse, creando mercati che facilitino la circolazione delle risorse all’interno del sistema. La totale assenza di questi attori, salvo sporadici casi ed ancora embrionali, rappresenta una limitazione fortissima“.
Le parole chiave dell’economia circolare infatti sono tre:
– risorse, intese come componenti del prodotto, che hanno un ciclo di vita più lungo e un valore intrinseco recuperabile;
– re-disegn, perché le imprese sono chiamate a ridisegnare processi di produzione (con interventi di efficienza energetica) e prodotti che siano modulari e facilmente assemblabili, realizzati con materiali riusabili e riciclabili;
– proprietà, perché se nell’economia lineare il prodotto passa totalmente al cliente, nell’economia circolare la proprietà del prodotto deve restare al produttore, mentre il cliente ne paga soltanto l’utilizzo attraverso meccanismi di pay for use.
Il processo interessa sia le componenti biologiche, in grado di tornare al loro stato originario, sia quelle tecniche, che invece comportano lavorazioni in parte irreversibili e hanno come ultima opzione il riciclo. L’economia circolare mira a mantenere in circolo all’interno del sistema produttivo quanto più possibile entrambi i tipi di risorse, generando cicli virtuosi di ri-uso, ri-lavorazione e ri-ciclo.
“La riduzione degli sprechi e il recupero dei rifiuti, o la valorizzazione energetica – ha commentato il Vicedirettore di E & S Group – è dunque solo una parte dell’economia circolare, per di più quella con minor valore aggiunto. Le altre ‘R’ dell’economia circolare, il ri-uso e la ri-lavorazione, sono assai più desiderabili, ma richiedono sforzi e investimenti ben differenti. Al riciclo siamo già abituati, ma per arrivare all’economia circolare la strada da percorrere è ancora lunga“.
Per misurare la sensibilità del nostro sistema economico verso il passaggio all’economia circolare, senza pretese statistiche, l’E&S Group ha condotto un’analisi dettaglia coinvolgendo oltre 150 imprese in 4 macro-settori industriali:
– costruzioni (opere di ingegneria civile o lavori di costruzione specializzati);
– automotive (progettazione, costruzione e vendita di veicoli o componenti);
– impiantistica industriale (realizzazione di apparecchiature elettriche o macchinari destinati all’industria);
– resource & energy recovery (recupero e smaltimento di rifiuti biologici, gestione di impianti per la produzione di energia elettrica attraverso biomasse).
Per ciascuna impresa, in ciascun settore, il Circular Economy Report ha investigato le pratiche di adottate, le barriere incontrate e i driver che invece ne hanno favorito la diffusione:
– il 62% delle aziende intervistate ha implementato almeno una pratica di Economia circolare o ha giocato un ruolo di supporto ad altre imprese nelle loro iniziative circolari (10%);
– del restante 38%, il 14% ha già chiara la volontà di adottare almeno una pratica di economia circolare nel prossimo triennio, mentre solo il 24% del totale si è dimostrato indifferente al tema.
Cifre che potrebbero destare un cauto ottimismo. In realtà, proprio le imprese più attive sono le prime a riconoscere che la strada da fare è ancora lunga. Il settore resource & energy recovery è quello che attualmente si colloca in posizione migliore rispetto agli altri, mentre le aziende dell’automotive appaiono (e si percepiscono) come maggiormente legate a logiche di tipo lineare all’interno dei propri processi.
Quanto ai tipi di attività, si è adottato soprattutto il design for environment (intervenire sul ri-disegno dei prodotti e dei processi è il primo fondamentale tassello), mentre solo circa un terzo delle aziende ha introdotto pratiche relative al design for remanufacturing/reuse e ben poche sono arrivate sino al design for disassembly e soprattutto alla messa in atto di sistemi di take back, ossia di recupero delle materie e dei componenti dai clienti finali.
Siamo ben lontani quindi dal poter affermare che in Italia (per lo meno nei settori presi in esame) sia diffusa l’economia circolare, anche se il processo di trasformazione si è messo in moto. Ma quali sono i fattori che hanno spinto le imprese all’adozione di pratiche manageriali per l’economia circolare?
Certamente la presenza di incentivi per realizzare gli interventi necessari e di leggi o regolamenti a supporto della transizione, tuttavia appare fondamentale la “visione” manageriale e imprenditoriale.
Quanto invece alle barriere, le più significative sono risultate l’incertezza governativa, che non agevola le aziende nella valutazione di decisioni strategiche, i costi d’investimento e le tempistiche associate alla realizzazione di interventi da sostenere per l’adozione delle pratiche circolari.
Par di capire che il percorso è appena abbozzato e serviranno investimenti significativi. L’ultima bozza di Piano (PNRR) che il nostro Paese dovrà predisporre e inviare a Bruxelles, per la componente “Economia circolare e valorizzazione del ciclo integrato dei rifiuti”, nell’ambito della Missione 2. “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, sono previsti 4,5 miliardi di euro.