Energia Fonti fossili

Trivellazioni: tutti i sussidi nel nuovo Rapporto di Legambiente

L’Associazione del Cigno Verde ha presentato un Dossier con dati e numeri delle rendite e dei privilegi alle trivellazioni per l’estrazione di petrolio e gas in Italia che si traducono in 474 milioni di euro di mancate entrate nelle casse pubbliche, risorse che potrebbero essere destinate alla costituzione di un fondo per lo sviluppo green e per le bonifiche dei territori inquinati.

Alla vigilia dell’approdo alla Camera dei Deputati della Legge di Bilancio 2020, Legambiente ha presentato il nuovo Rapporto Tutti i sussidi alle trivellazioni” che dimostra, con dati e numeri, come l’Italia continui a preferire le fonti fossili ad un nuovo sistema energetico basato su prosumer, autoproduzione, reti smart e comunità energetiche e, soprattutto, come ai tanti annunci fatti dalla politica e dal Governo, non siano seguite azioni concrete per cancellare i sussidi alle fonti fossili

In Italia, la cancellazione dei sussidi alle fonti fossili è ancora un’utopia – sottolinea l’Associazione Ambientalista – Nonostante l’emergenza climatica in atto, si continua ad investire su questi fonti inquinanti, responsabili dell’effetto serra, agevolandole attraverso un sistema di royalties inadeguato canoni troppo bassi rispetto a quelli europei e prevedendo anche la possibilità di dedurre le royalties dall’imponibile regionale (fino a un massimo del 3%). Il tutto accompagnato da piccoli passi in avanti, ma del tutto insufficienti per affrontare la decarbonizzazione in una fase di emergenza”.

Il risultato sarebbe un lauto bottino in denaro per chi estrae gas e petrolio (18,8 i miliardi di euro arrivati nel 2018 a tutto il settore delle fonti fossili, tra sussidi diretti e indiretti). Legambiente ha calcolato che il pacchetto di rendite e privilegi destinati alle compagnie che trivellano mari e territori della Penisola, si traducono in 474 milioni di euro di mancate entrate per lo Stato, Regioni e Comuni. Risorse che potrebbero essere destinate alla bonifica dei territori inquinati dai siti di estrazione e di produzione da fonti fossili e allo sviluppo di un nuovo, efficiente e democratico sistema energetico basato sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, competitive e vera ricchezza del Paese, sull’efficienza energetica e su una nuova mobilità a zero emissioni.

La Legge di Bilancio ne sarebbe “una prova tangibile visto che dal testo iniziale è scomparso il totale taglio alle esenzioni dal pagamento delle royalties, sostituito con esenzioni a partire dal 2020 di cui beneficeranno le soli concessioni gas con una produzione annuale fino a 10 milioni di smc (metri cubi sterili) per quello estratto in mare e 30 milioni di smc per quello estratto su terra ferma. Pari rispettivamente all’1,4% del totale estratto per le prime e al 12,7% del totale estratto su terra ferma per le seconde. E per il settore petrolio la limitazione delle esenzioni varrebbe per soli tre anni. A questa si aggiungono le timide misure arrivate dall’Esecutivo che riguardano l’introduzione del pagamento dell’Imu per le sole piattaforme petrolifere marine – prevista nel decreto fiscale ed effettiva dal 2020 – e per le quali è stata stabilita una aliquota, ad hoc, pari al 10,6 per mille e il cui gettito sarà ripartito tra stato e comuni, per un’entrata stimata in appena 6 milioni di euro l’anno. E il lieve innalzamento del costo dei canoni inserito nel Decreto Semplificazioni”.

Per questo Legambiente lancia all’Esecutivo le sue proposte per l’eliminazione definitiva dei sussidi alle trivellazioni e per puntare finalmente dritti verso gli obiettivi climatici e di decarbonizzazione, eliminando da subito, tutti i vantaggi economici al settore oil&gas. In particolare, tra le azioni da intraprendere richieste dal Legambiente ci sono:
l’adeguamento delle royalties petrolifere almeno al 20%;
– l’eliminazione di tutte le esenzioni al pagamento delle royalties per le grandi aziende del settore;
– l’eliminazione delle detrazioni regionali sulle royalties, che finiscono solo per ridurre le entrate per i territori a tutto vantaggio delle aziende.

Dall’allarme dell’ONU-IPCC, lanciato in Corea del Sud a fine 2018, in cui venivano dichiarati 12 anni di tempo per cambiare rotta in termini di emissioni climalteranti, è passato ormai più di un anno, e nulla sembra essere cambiato in termini di azioni concrete per invertire la tendenza. Il Piano Energie e Clima integrato che verrà presentato a fine anno – ha dichiarato Katiuscia Eroe, responsabile Energia di Legambiente – Il Piano integrato Energia e Clima che verrà presentato a fine anno dimostrerà in modo concreto e univoco, se davvero il Governo sia pronto a scommettere su un nuovo sviluppo sostenibile e dare finalmente a questo Paese gli strumenti per ridurre le emissioni climalteranti in tutti i settori produttivi, con l’obiettivo di decarbonizzazione al 2040. Siamo convinti che non vi è nessuna ragione ambientale, sociale o economica per non intervenire in tema di sussidi. Per questo la proposta che facciamo è quella di intervenire subito, eliminando tutti i sussidi diretti alle estrazioni che rendono tali attività economicamente vantaggiose, e laddove necessario sviluppando politiche di sostegno alla riconversione delle aziende”.

Dal Dossier, emerge che nel nostro Paese le 18 aziende che producono idrocarburi sono in grado di soddisfare un percentuale davvero povera dei consumi interni lordi Italia, pari al 2,6% per il gas e al 2,4% per il petrolio. Un bottino assai magro, ma che grazie ad un sistema di royalties e detrazioni regionali inadeguato, trasforma un Paese con pochi giacimenti in un ricco Texas petrolifero. Tra le aziende protagoniste in Italia in tema di estrazioni, quella che svolge il ruolo principale è ENI, l’Azienda di Stato, non solo per produzioni, ma anche per numero di pozzi (437 pozzi eroganti, il 57,5% di quelli in uso nel 2018) e per gettito di royalties. Ma anche in termini di vantaggi ottenuti dal sistema di royalties, 47 milioni di euro solo di esenzioni circa l’anno fino ad oggi.

Per quanto riguarda il portafoglio dei titoli minerari, al 30 settembre 2019, in Italia, sono 270 i titoli minerari per la ricerca e coltivazione di idrocarburi, estesi complessivamente, tra mare e terra, per oltre 42 mila kmq, un’estensione pari a circa due volte la Regione Toscana. Attività che coinvolgono, tra permessi di ricerca ed estrazioni, ben 15 regioni italiane, le più interessate l’Emilia Romagna con 5.378,95 kmq e la Regione Basilicata, con 5.241,23 kmq. Seguite dalla Sicilia con 4.358,53 kmq e dall’Abruzzo con 1.852,50 kmq. I titoli minerari marini, invece, riguardano il Mar Adriatico, dall’Emilia Romagna alla Puglia, il Mar Ionio e il Mar di Sicilia, coinvolgendo un’area di

Sul fronte dei sussidi, sono quattro le criticità.
La maggiore riguarda le royalties, pari al 10% per le estrazioni in terra ferma e del 7% per quelle in mare. Negli altri Paesi Europei, dove generalmente le royalties sono associate alla quantità di idrocarburi estratti, possono arrivare fino al 22% come nel caso dell’Austria, al 25% come in Bulgaria, al 30% come in Ungheria o al 40% come in Irlanda. Oppure si prevedono sistemi diversi di tassazione come accade in Norvegia con la Speciale Tassa sul Petrolio che vale il 54% della produzione. Per questo Legambiente propone di portarle almeno al 20% non solo per spingere gli obiettivi di decarbonizzazione, ma anche per valorizzare le risorse estratte nei nostri mari e nei nostri territori.

La seconda criticità riguarda la deducibilità delle royalties. Malgrado le royalties siano così basse e convenienti, le compagnie petrolifere hanno anche la possibilità̀ di dedurle dall’imponibile, fino ad un massimo del 3%, riducendo così quanto arriva complessivamente nelle casse pubbliche..

Altra questione non del tutto risolta, anche se passasse la nuova proposta inserita nella Legge di Bilancio, è quella legata alle esenzioni del pagamento delle royalties, che come mette in evidenza il Rapporto di Legambiente, riguarda ancora una percentuale significativa di gas, pari al 13% circa di quello estratto tra mare e terra ferma. Consegnando ancora una volta parte dei vantaggi economici a grandi aziende come Eni ed Edison.

Infine c’è la questione dei canoni che, nonostante il precedente Governo con il Decreto Semplificazioni li abbia aumentati di 25 volte, se paragonati a quelli degli altri Paesi rimangono ridicoli. Per questo l’Associazione ambientalista chiede di aggiornare i canoni con cifre più̀ adeguate, seguendo ad esempio quelli degli altri Paesi europei come accade in Danimarca dove i permessi di ricerca si pagano 3.300 euro a kmq o in Norvegia dove, invece, il costo è di 8.150 euro l’anno per kmq per la ricerca e di 13.620 euro per la coltivazione.

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