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Enzima mutante: “inventato” il microrganismo che mangia la plastica

Enzima mutante mangia plastica

di Nicoletta Canapa

La plastica dura e resistente, nota come PET o polietilene tereftalato, persiste nell’ambiente per più di cento anni. Ma se esistesse un enzima capace di “mangiare” a poco a poco una bottiglietta di plastica, potremmo evitare l’inquinamento della plastica?

Proprio oggi (5 maggio 2018), in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente il messaggio globale scelto per le celebrazioni di quest’anno e lanciato con l’hashtag #BeatPlasticPollution è  l’invito rivolto alle persone di ridurre il pesante fardello dell’inquinamento della plastica, una delle minacce più gravi per gli ecosistemi marini, con 8 milioni di tonnellate di plastica che “invadono” ogni anno i mari. 

Un team di scienziati dell’Università di Portsmouth (Regno Unito) e del Laboratorio nazionale per le energie rinnovabili del Dipartimento dell’Energia (DOE) statunitense, ha potenziato quella che in principio è stata una scoperta italiana: il bruco mangia-plastica della ricercatrice Federica Bertocchini.

Appena un anno fa la scienziata, appassionata di apicoltura, aveva inizialmente messo in una borsa di plastica gli alveari vuoti infestati dalle tarme mangia-cera. Il risultato fu che il giorno dopo la borsa risultava lacerata. Tuttavia, “per realizzare una discarica eco-sostenibile servirà l’agente che degrada la plastica estratto dalle larve delle tarme – aveva osservato la Bertocchini – e non quantità enormi di larve vive”.

Ora, a distanza di un anno, il Gruppo di ricercatori anglo-americano è riuscito a creare un enzima, cioè una proteina che ha il compito di favorire la reazione biochimica, prodotto da un batterio mangia-plastica. Si tratterebbe di un enzima mutante che mangia micro-particelle di plastica. Modificato in laboratorio, potrebbe riuscire nell’arco di pochi giorni ad avviare il processo di demolizione di una bottiglia di plastica.

risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla PNAS, la prestigiosa rivista dell’Accademia Nazionale delle Scienze statunitense con il titolo “Characterization and engineering of a plastic-degrading aromatic polyesterase”.

Gli scienziati, cercando di capire il funzionamento del PETase, un enzima naturale che viene da un batterio ghiotto di plastica (Ideonella sakaiensis) individuato in Giappone, nel porto di Sakai, in un sito per il riciclo di bottiglie di plastica, hanno inavvertitamente ingegnerizzato un enzima che è ancora migliore nel degradare la plastica rispetto a quello che si è evoluto in natura.

Collaborando con gli scienziati della Diamond Light Source (Oxford) il sincrotrone che utilizza raggi X 10 miliardi di volte più intensi di quelli del Sole, i ricercatori hanno dettagliato la struttura atomica dell’enzima. Questo è parso molto simile a quello prodotto dai batteri per degradare la sostanza idrofoba che riveste molte parti esposte delle piante, chiamata “cutina”. Da qui l’annuncio dell’individuazione dell’enzima mutante che, in laboratorio, avrebbe migliorato le sue capacità di smaltimento addirittura del 20%. Nulla vieta di pensare, quindi, che in futuro questo enzima possa venire ulteriormente potenziato, fino ad arrivare ad un rapido e quasi totale smantellamento delle molecole di plastica.

Non si tratta di un enzima che può essere commercializzato dall’oggi al domani, ma sicuramente quello “generato” dai ricercatori permetterebbe di tornare agli iniziali mattoncini con cui era stata prodotta la bottiglietta, rivoluzionando il riciclo degli imballaggi in plastiche. Ad oggi, nel mondo si vende un milione di bottiglie di plastica al minuto e di queste solo il 14% è correttamente riciclato.

Il problema non è solo quello della plastica finora prodotta, ma quella che si continua a produrre e che non viene correttamente smaltita, magari perché frantumata e destinata a disperdersi nei mari, dove viene ingerita in gran quantità dai pesci, per finire poi, attraverso la catena alimentare, nei nostri piatti.

Il punto, quindi, non è vivere senza plastica, ma utilizzarla meno e meglio: ogni anno, infatti, si assiste alla produzione di circa 300 milioni di tonnellate di plastica, di cui “il 3% finisce, per incuria o per errori nella filiera del riciclo, in mare – ha spiegato Marco Faimali, dell’Istituto di Scienze Marine-CNR di Genova, che ha collaborato con l’Università Politecnica delle Marche di Ancona per la Campagna “Meno Plastica, Più Mediterraneo” di Greenpeace per raccogliere dati e testimonianze dirette sull’inquinamento da plastica che affligge i nostri mari – I risultati indicano che rifiuti e particelle sintetici non hanno confini e che i frammenti si accumulano anche in aree protette e in zone teoricamente lontane da sorgenti di inquinamento”.

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