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Decarbonizzazione: focus trasporto pesante su gomma e cemento

Lo Zero Carbon Technology Pathways Report 2024 dell’Energy & Strategy Group del Politecnico di Milano, giunto alla II edizione e presentato il 15 gennaio 2025, che si pone l’obiettivo di analizzare gli approcci per affrontare le difficoltà della decarbonizzazione, dedica il focus a due settori hard-to-abate: trasporto pesante su gomma e produzione cemento.

La sfida per la decarbonizzazione è ben lungi dall’essere vinta. A livello globale, nonostante gli sforzi messi in atto, la quantità di emissioni continua, anche se a tassi di crescita via via minori, ad aumentare. L’Europa, e l’Italia per certi versi, sembrano invece avere trovato la ricetta corretta, facendo segnare un calo (anche questo ormai in essere da diversi anni) rispetto ai valori del 1990. Tuttavia, i livelli di emissioni di gas serra in Italia dal 1990 sono calate solo del 27%, (2023 ultimo rilevamento), nello stesso periodo in UE sono diminuite del 36%. Il gap è ancora più significativo se si considera che nello stesso periodo il PIL pro capite europeo è cresciuto del 57% contro il 23% del nostro Paese.

Nonostante questo riardo, il risultato deve essere ascritto da un lato all’efficientamento energetico (con il rapporto consumi/PIL che si è ridotto del 30%) e dall’altro alla diffusione delle rinnovabili (con il rapporto emissioni/consumi che si è ridotto del 18%), indicando che comunque il percorso intrapreso è quello corretto.

Tuttavia, senza ridurre in maniera decisa le emissioni dei settori difficili da decarbonizzare (hard-to-abate) è impossibile avvicinare i target di riduzione delle emissioni più stringenti che l’UE si è data al 2030, ed ovviamente al 2050, tra cui quelle prodotte dal trasporto pesante su gomma e dalla produzione di cemento.

Proprio a questi due settori è dedicato il focus dello Zero Carbon Technology Pathways Report 2024 dell’Energy & Strategy Group del Politecnico di Milano, giunto alla II edizione e presentato il 15 gennaio 2025, che si pone l’obiettivo di analizzare gli approcci per affrontare le difficoltà della loro decarbonizzazione.

Le emissioni dei settori hard-to-abate non sono poca cosa – ha commentato Vittorio Chiesa, Direttore di E&S Group – Secondo il monitoraggio effettuato nell’ambito dello European Union Emissions Trading Scheme (EU ETS, il sistema per lo scambio di quote di emissione di gas serra), i settori industriali hard-to-abate sono stati responsabili nel 2023 dell’11% delle emissioni italiane e del 13% di quelle europee. Al trasporto pesante su strada, aereo e marittimo si deve invece l’8% di CO2”.

“Senza intaccare in maniera decisa le emissioni di questi settori è impossibile avvicinare i target di riduzione che l’UE si è data al 2030 e al 2050 – ha aggiunto Davide Chiaroni, Vicedirettore di E&S e Responsabile del Rapporto – Infatti, il quadro normativo si è mosso per renderne più stringenti gli obblighi: il sistema EU ETS ha aumentato il target di riduzione rispetto al 2005 dal -43% all’attuale -62% ed è stato affiancato dal sistema ETS 2 per quanto riguarda le emissioni prodotte dalla combustione di carburanti nei settori del trasporto e residenziale. Tutto questo impone un’accelerazione, ai policy maker e agli operatori del settore: gli strumenti in campo, benché coerenti, sono infatti largamente insufficienti quanto a risorse disponibili. Basti pensare che per i soli impianti di cattura di CO2 nel settore del cemento, tecnologia imprescindibile per abbattere le emissioni, occorrerebbero al 2050 in Italia tra i 3,6 e i 6,8 miliardi di euro, mentre la totalità dei finanziamenti europei dell’European Innovation Fund, il principale programma dell’Unione Europea per promuovere lo sviluppo e l’adozione di tecnologie per la decarbonizzazione dell’industria, a ottobre 2024 si fermava a 164 milioni”.

Il trasporto merci su strada: la decarbonizzazione dei veicoli commerciali pesanti (HDV)
Le soluzioni per la decarbonizzazione del trasporto merci tramite heavy-duty vehicles (HDV) possono essere suddivise in due macrocategorie: uso di carburanti sostenibili che alimentano truck “convenzionali” ossia dotati di un normale motore a combustione interna; adozione di veicoli a trazione elettrica.

Nel rapporto è stato analizzato il TCO (Total Cost of Ownership) per le diverse soluzioni sopra identificate, avendo come riferimento per il “caso base” il truck alimentato a diesel fossile, che rappresenta di gran lunga il più diffuso sul mercato. Se si prende ad esempio il caso di un truck che percorre giornalmente circa 400 km, il TCO di riferimento (diesel fossile) è di 0,65 euro/km, che diventano 1,02 euro/km per i veicoli elettrici (BEV) e addirittura 2,47 euro/km per i veicoli ad idrogeno (FCEV).

Le soluzioni HVO (olio vegetale idrotrattato) e BIO-GNL (Biogas-Biometano-Gas Naturale Liquefatto) sono invece sostanzialmente comparabili al “caso base” (con una differenza compresa entro i 2 centesimi di euro/km). La distribuzione delle soluzioni sostanzialmente non cambia anche se si considerano diversi range giornalieri con una amplificazione delle differenze che è inversamente proporzionale all’aumento ella percorrenza.

Il grafico riportato, che analizza il TCO al variare della percorrenza giornaliera, mostra come sul costo chilometrico dei mezzi a trazione elettrica impatti notevolmente il capex. Infatti, nel caso di una percorrenza pari a 400 km/giorno, l’acquisizione del veicolo BEV conta per il 43% del totale e quella del veicolo FCEV per il 46%, contro un peso pari a circa il 20-25% nel caso delle tecnologie tradizionali. Quando la percorrenza sale a 600 km/giorno, il peso del capex per le trazioni elettriche scende a 28% e 37% per BEV e FCEV rispettivamente, ancora molto superiore rispetto al 17-19% dei truck alimentati a carburanti sostenibili.

Altri due elementi, relativi al carburante, sono di particolare interesse:
si nota una crescita del TCO del veicolo BEV superata la soglia dei 400 km/giorno, dovuta alla necessità di ricorrere a infrastrutture di ricarica pubblica, più costosa rispetto alla ricarica privata in deposito;
l’impatto notevole del costo del carburante per il veicolo FCEV, dovuto all’uso di idrogeno verde, il cui costo di produzione resta piuttosto elevato.

La situazione cambierebbe con l’implementazione di opportune policy ad-hoc per il sostegno di veicoli a zero emissioni. Il Rapporto ha considerato l’impatto sul TCO del meccanismo ETS 2, che porterà ad un aumento del costo del carburante tradizionale del 10- 15%, e di una eventuale rimozione dei pedaggi autostradali per i veicoli a zero emissioni. Inoltre, è stato modellizzato un prezzo dei biocarburanti superiore a quello attuale, in modo da rifletterne il valore. Con queste assunzioni, l’analisi mostra che il veicolo BEV potrebbe raggiungere già oggi la parità di costo con il veicolo alimentato ad HVO, anche se l’elevato capex del mezzo resterebbe una barriera significativa alla diffusione di truck elettrici.

La «distanza» misurata sul TCO è tuttavia ben poca cosa se si considera la «distanza» misurata sul mercato. Nel nostro Paese, la quota di mercato delle alimentazioni alternative sulle immatricolazioni totali è del tutto marginale (2% nel 2023) e la quasi totalità del parco circolante di HDV è costituito da veicoli a diesel.

Sono tante, infatti, le barriere che rallentano o impediscono la diffusione di truck alternativi, e in particolare di truck a zero emissioni, nel nostro Paese: l’incertezza normativa, il costo di acquisizione dei mezzi, la mancanza di meccanismi di incentivazione adeguati, le carenze a livello infrastrutturale e, non da ultimo, l’assenza di domanda di mercato per un trasporto “green” frenano l’adozione di mezzi sostenibili da parte degli operatori.

Per rendere l’idea dell’impatto economico di tale “distanza”, sottolinea il report, si tenga conto che, assumendo una quota di vendite di HDV elettrici pari al 50% delle immatricolazioni totali al 2030, in linea con i target europei e le dichiarazioni degli OEM, saranno necessari 1,7 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi (rispetto all’acquisto di veicoli diesel).

Peraltro, è stato appena pubblicato sulla GUUE il Regolamento che stabilisce le procedure dettagliate per la verifica in servizio dei veicoli pesanti nuovi sui i livelli di prestazione in materia di emissioni di CO2 che entrerà in vigore il 3 febbraio 2025 e sarà direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri, esentando quelli a emissioni zero ovvero privi di motore a combustione interna o con un motore a combustione interna le cui emissioni di CO2, siano inferiori a 1 g/Km.

Il cemento: la riduzione delle emissioni in un settore “very hard-to-abate”
Le emissioni di CO2 lungo il processo produttivo del cemento possono essere suddivise in:
emissioni dirette, ossia attribuibili principalmente alla produzione del clinker, dovute alla reazione di calcinazione (emissioni di processo, che rappresentano il 48% del totale) e alla combustione di combustibili (25% del totale);
emissioni indirette, attribuibili all’approvvigionamento di materie prime (23%) e al consumo di energia elettrica (4%).
La fase di produzione del clinker è quindi responsabile del 73% delle emissioni totali di CO2 causate dalla produzione del cemento.

Ad oggi, sono diverse le leve di decarbonizzazione che consentono di ridurre le emissioni dirette dovute alla produzione di cemento:
efficienza di processo, l’adozione di Best Available Technologies per la cottura del clinker consente di ottimizzare i consumi di energia termica, riducendo le emissioni legate alla combustione;
sostituzione delle materie prime in input, la quota maggiore delle emissioni per la produzione del cemento è legata alla produzione di clinker, per cui la riduzione del contenuto di calcare nel clinker e di clinker nel cemento comporta una riduzione delle emissioni;
uso di combustibili alternativi, la generazione di calore di processo tramite la combustione di combustibili a minore impatto ambientale non richiede modifiche significative agli impianti; (
cattura della CO2 quale leva fondamentale per le emissioni non evitabili dovute alla reazione di calcinazione.

Di queste soluzioni, secondo il report, considerando le specificità viste prima per il processo, la cattura della CO2 (CCS) è assolutamente imprescindibile. L’analisi svolta all’interno del Rapporto ha modellizzato l’impatto economico di diverse tecnologie di cattura sul costo di produzione del cemento, mostrando come, ad oggi, la CCS non può essere economicamente sostenibile se non adeguatamente supportata.

Infatti, la somma dei capex e degli opex (spese operative relativi all’impianto di cattura, a cui si aggiungono i costi del trasporto e dello stoccaggio della CO2 catturata, comporterebbero un aumento del costo di produzione del cemento nell’ordine del 150-230% rispetto al valore medio attuale.

Nel grafico che illustra più nel dettaglio l’analisi dell’impatto del costo della CO2 sul costo di produzione del cemento, si nota come in assenza di impianti di cattura un produttore di cemento si ritroverebbe a dover fronteggiare costi aggiuntivi, dovuti alle quote di emissione del meccanismo EU ETS, pari a circa 82 euro/tonn, rispetto a una media attuale dei costi di produzione pari a circa 61 euro/tonn (+130%).

Il costo aggiuntivo di produzione in caso di CCS sarebbe più elevato (+150-230%), con un peso notevole dovuto alle fasi di trasporto e stoccaggio, che sono anche estremamente variabili. Anche escludendo le fasi di trasporto e stoccaggio, immaginando per esempio incentivi a copertura delle fasi di gestione della CO2 “a valle” della produzione del cemento, si evidenzia come la cattura ponga seri dubbi sulla sostenibilità economica dell’abbattimento delle emissioni, visti gli impatti che essa avrebbe sul prezzo finale del prodotto e di conseguenza sulla domanda di mercato.

Come per i trasporti, il report ha preso in esame la “distanza” tra le soluzioni identificate e quello che effettivamente accade sul mercato. Nel caso del cemento la situazione è ancora più semplice da caratterizzare poiché, a meno di progettualità che però ad oggi sono ancora “sulla carta”, non vi sono soluzioni di cattura di CO2 attive nel nostro Paese.

Le barriere riconosciute dagli operatori del settore sono infatti innumerevoli, prima fra tutte il costo elevatissimo della CCS e la mancanza di meccanismi a supporto degli operatori riconosciuti come adeguati, che discende a sua volta dall’assenza di un quadro strategico relativo alla CCS in Italia. Anche il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) il meccanismo per non favorire le merci importate da fuori l’UE, che dovrebbe accelerare la transizione verso un’industria del cemento decarbonizzata, non viene percepito come misura realmente efficace a protezione della competitività degli operatori europei.

Per rendere ancora una volta l’idea dell’impatto economico di tale “distanza”, sottolinea il Rapporto, si tenga conto che, al 2050 saranno necessari tra i 3,6 e i 6,8 miliardi di euro di investimenti per l’installazione degli impianti di sola cattura di CO2, senza considerare lo sviluppo dell’infrastruttura di trasporto e stoccaggio.

Verso una nuova policy per i settori “hard-to-abate”
La “distanza” tra le soluzioni potenzialmente disponibili per la decarbonizzazione e la loro reale diffusione sul mercato, ed il conseguente calcolo delle risorse teoricamente necessarie per supportarle, mette in luce come, a livello europeo, e non solo italiano, sia necessario un deciso cambio di passo per supportare la decarbonizzazione dei settori hard-to-abate.

Gli strumenti in campo, sebbene logicamente coerenti, sono infatti largamente insufficienti in quanto a risorse disponibili. È il caso, ad esempio, dell’European Innovation Fund (EIF), il principale programma dell’UE per promuovere lo sviluppo e l’adozione di tecnologie e processi innovativi per la decarbonizzazione dell’industria europea.

A ottobre 2024, il fondo aveva destinato ai Paesi europei 7,42 miliardi di euro di finanziamenti, di cui il 54% per i settori industriali hard-to-abate. Se si guarda ai progetti finanziati in Italia, tuttavia, si nota che solo il 2% dei fondi europei sono associati a progetti sviluppati nel nostro Paese, contro il 12% per la Germania, l’11% per la Spagna e il 7% per la Francia. Un semplice confronto tra i 164 milioni di euro a supporto di progetti italiani e i 3,6-6,8 miliardi di euro necessari per la sola cattura di CO2 nel solo settore del cemento sono un sintomo della limitatezza del fondo, oltre che delle difficoltà riscontrate dagli operatori nel nostro Paese nel partecipare efficacemente ai bandi. Anche per quanto riguarda il trasporto pesante su gomma, si evidenzia come lo strumento di incentivazione principale per promuovere la decarbonizzazione sia l’obbligo, con l’imposizione di target nel breve, medio e lungo termine, che tuttavia non si riflettono in adeguati meccanismi di supporto a livello nazionale. Basti pensare che nel nostro Paese, per “Camion Green”, il bonus pensato per incoraggiare la riconversione green del parco veicoli, ha messo a disposizione nel 2024 25 milioni di euro di euro per l’acquisto di truck sostenibili, mentre le analisi presentate nel Rapporto mostrano che nel 2025 gli operatori dovrebbero investire 50 milioni di euro in più rispetto all’acquisto di mezzi diesel per essere in linea con i target, fino a raggiungere 1,7 miliardi cumulati al 2030.

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