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La plastica nel piatto: dal pesce ai frutti di mare. Rischi per la salute umana

plastica nel piatto

Il nuovo Rapporto di Greenpeace sull’impatto delle microplastiche sugli ecosistemi marini sottolinea ulteriormente la gravità della situazione e i rischi per la salute umana risalendo la contaminazione attraverso la catena alimentare dal mare alle nostre tavole.

Nei giorni precedenti la chiusura per le ferie estive avevamo postato un articolo.
sull’aumentata consapevolezza dei rischi per la salute umana e per l’ambiente derivanti dalla diffusione nelle acque delle microplastiche ovvero di quelle particelle di plastica di diametro o lunghezza inferiore ai 5 mm, che possono essere prodotte dall’industria (come le microsfere utilizzate in molti prodotti cosmetici o per l’igiene personale), o derivare dalla degradazione in mare di oggetti di plastica più grandi per effetto del vento, del moto ondoso o della luce ultravioletta.

Che il problema sia sempre più riconosciuto come emergente per i sistemi marini di tutto il mondo, lo testimonia ulteriormente la pubblicazione del Rapporto “Plastics in seafood”, realizzato da Greenpeace Research Laboratories che ha sede presso l’Università di Exeter (Gran Bretagna), di cui il 29 agosto è stata diffusa una sintesi in varie lingue, anche in italiano.

La produzione globale di plastica negli ultimi anni, dal 2002 al 2013, è aumentata da 204 a 299 milioni di tonnellate/anno. Gran parte della plastica è utilizzata per gli imballaggi (39,6%) o comunque per prodotti monouso, generando montagne di rifiuti che finiscono in gran parte nelle discariche o semplicemente dispersi per finire negli oceani tramite i corsi d’acqua, gli scarichi urbani, percolando nel terreno dalle discariche o perché deliberatamente buttati in mare.

Il Rapporto, raccogliendo le ultime ricerche accademiche sugli impatti delle microplastiche sugli ambienti marini, indica i rischi connessi alla diffusione di queste piccole sostanze tossiche che, ingerite dalla “vita” marina (pesci, crostacei, molluschi, ecc.), attraverso la catena alimentare possono giungere fino alla nostra tavola, senza che al momento gli effetti sulla salute umana siano adeguatamente stimati.
Gli organismi marini possono ingerire le microplastiche in diversi modi: gli organismi filtratori, come le cozze, le vongole o le ostriche, possono semplicemente contaminarsi con l’acqua che filtrano per nutrirsi, mentre i pesci possono ingerirle sia direttamente, scambiandole per prede, che attraverso il consumo di prede contaminate.

Come evidenziato da numerosi studi in laboratorio, l’ingestione di microplastiche può generare sugli organismi marini due tipi di impatti differenti: di natura fisica (ad esempio lesioni agli organi dove avviene l’accumulo) e chimica (trasferimento e accumulo di sostanze inquinanti).
In esperimenti condotti su spigole (Dicentrarchus labrax) nutrite con frammenti di PVC per 90 giorni, sono stati evidenziati danni di natura fisica, come lesioni al tratto intestinale, sia in individui nutriti con frammenti di plastica contaminata sia in quelli nutriti con plastica non contaminata. I risultati di questo studio, coordinato dall’ISPRA, suggeriscono che la sola ingestione di microplastica, indipendentemente dal contenuto di sostanze tossiche, può generare gravi impatti negativi sulla specie presa in esame.

Gli studi che riguardano il possibile effetto tossicologico generato dall’ingestione di cibo contaminato con microplastiche (ad esempio molluschi o pesci) nell’uomo sono ancora agli albori. Tuttavia, considerando che le microplastiche sono presenti in diverse specie ittiche consumate dall’uomo, è verosimile che con l’alimentazione si possano ingerire microplastiche soprattutto nel caso dei molluschi, che sono consumati interi.
Anche se al momento è difficile definire i possibili rischi per la salute umana, sono stati identificati una serie di problemi (ancora oggetto d’indagine) che potrebbero derivare dall’ingestione di microplastiche tramite prodotti ittici contaminati: dalla diretta interazione tra le microplastiche e i nostri tessuti e cellule, fino a un ruolo come fonte aggiuntiva di esposizione a sostanze tossiche. Considerando che molti degli additivi e contaminanti associati alle microplastiche sono pericolosi per la salute umana e per l’ambiente, questo aspetto rimane una delle principali aree su cui concentrare le ricerche in futuro.

La situazione è grave e occorre agire subito applicando il principio di precauzione. Chiediamo al Parlamento di adottare al più presto il bando alla produzione e uso di microsfere di plastica nel nostro Paese – si legge nel Comunicato di Greenpeace Italia – Su iniziativa dell’associazione Marevivo è stata già presentata una proposta di legge. Si tratta di una misura necessaria per fermare al più presto il consumo umano di questi materiali”.

Presentata alla Camera dei Deputati il 23 maggio 2016, la proposta di legge “Introduzione del divieto di utilizzo di microparticelle di plastica nei prodotti cosmetici”, già varata dalle Commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera dei Deputati, prevede il divieto di produrre e mettere in commercio prodotti cosmetici contenenti microplastiche.
In Europa nel 2013 solo per i prodotti di bellezza (creme solari, mascara, eye liner, dentifrici, schiume da barba) sono state impiegati quasi 5.000 tonnellate di microsfere, finite quasi tutte in mare. In certi cosmetici la loro concentrazione arriva al 90%, arrivando a pesare più del flacone del prodotto.

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