Uno Studio condotto da ricercatori di Hong Kong e Singapore rivela che il principale driver del commercio globale di fauna selvatica è il divario socio-economico tra Paesi esportatori e Paesi ricchi importatori, tra i quali gli USA sono di gran lunga il primo animatore del mercato, seguiti da Francia e Italia.
Lo Studio “International socioeconomic inequality drives trade patterns in the global wildlife market”, condotto da un gruppo di ricercatori di varie istituzioni accademiche di Hong Kong e Singapore, e pubblicato il 5 maggio 2021 su Sciences Advances, ha scoperto che la disuguaglianza socio-economica sta guidando gli attuali modelli nel mercato globale della fauna selvatica.
Un precedente Studio ha calcolato che quasi 5.600 specie, circa il 18% degli animali vertebrati terrestri, è venduta e acquistata sul mercato della fauna selvatica, dal 40% al 60% in più di quanto non si fosse finora stimato.
Per condurre lo Studio i ricercatori asiatici si sono avvalsi del data-base della Convenzione sul Commercio internazionale delle specie di fauna e flora minacciate di estinzione (CITES) che tiene traccia delle vendite globali di fauna selvatica.
Confrontando tali numeri con i dati socio-economici dei Paesi coinvolti coinvolti, i ricercatori hanno scoperto che circa 420 milioni di animali selvatici sono stati scambiati in tutto il mondo tra il 1998 e il 2018, coinvolgendo 226 Paesi, ma hanno anche rilevato che la maggior parte degli scambi comportava il trasferimento di animali da Paesi poveri a Paesi ricchi e che alcune coppie (Paese esportatore e importatore) rappresentano una grande percentuale del mercato della fauna selvatica.
I maggiori esportatori di fauna selvatica nel periodo analizzato sono stati Indonesia, Giamaica e Honduras, mentre gli Stati Uniti sono risultati di gran lunga il maggiore importatore, ma poi seguono Francia e Italia.
Il commercio di fauna selvatica non costituisce solo un danno per la perdita di biodiversità, ma anche un rischio per la salute umana. Quando gli animali selvatici vengono prelevati dal loro habitat naturale, come ammonisce il Rapporto “Prevenire la prossima pandemia: malattie zoonotiche e come spezzare la catena della trasmissione” di UNEP-ILRI, aumenta il potenziale di trasmissione di zoonosiovvero di malattie causate da agenti patogeni che si diffondono dagli animali all’uomo, tra cui la SARS-CoV-2 che ha causato la pandemia di Covid-19.
I ricercatori hanno osservato che è in atto un rallentamento del commercio di fauna selvatica, correlato alla pandemia, ma ritengono che sia solo una tregua temporanea, qualora non vengano messe in atto misure adeguate. Tra queste, indicano di offrire sussidi economici ai Paesi esportatori per non esportare la fauna selvatica, che dovrebbero essere elargiti dai Paesi ricchi che sono i principali importatori.
“Per evitare di tornare al business as usual – ha sostenuto Jia Huan Liew, ricercatore post-dottorato presso la Divisione Ecologia e Biodiversità della Scuola di Scienze Biologiche dell’Università di Hong Kong, principale autore dello Studio – dovremmo approfittare della consapevolezza del pubblico delle possibili conseguenze del consumo di prodotti della fauna selvatica per ridurne la domanda“.
In copertina: Civetta delle palme (Paradoxurus hermaphroditus) o musang, diffusa nel nel Sub continente indiano, penisola indocinese, Indonesi e Filippine (Fonte: World Animal Protection/Aaron Gekoski).