Acqua Inquinamenti e bonifiche Mari e oceani

Gli abissi oceanici come lavandini dei POP scaricati nei mari

abissi oceanici

In un precedente articolo dedicato agli inquinamenti marini, avevamo dato notizia di uno studio condotto da ricercatori delle Università di Bristol e Oxford, che per la prima volta dimostrava l’ingestione di microplastiche da parte di esemplari di paguroidea, galatheidae e oloturoidei, organismi che vivono a profondità comprese tra i 300 m e i 1.800 m

Ora, un nuovo Studio pubblicato on line il 13 febbraio 2017 su Nature Ecology & Evolution e condotto da ricercatori della Scuola di Scienze e Tecnologie Marine dell’Università di Newcastle e dell’Istituto di Scienze Biologiche ed Ambientali dell’Università di Aberdeen, rivela che l’inquinamento prodotto dall’uomo ha raggiunto addirittura gli abissi più profondi degli oceani.

Gli autori di “Bioaccumulation of persistent organic pollutants in the deepest ocean fauna“, infatti, hanno trovato nel tessuto adiposo di gamberetti che vivono nelle fosse delle Marianne e di Kermadec nell’Oceano Pacifico, profonde oltre 10.000m, elevati livelli di inquinanti organici persistenti (POP), sostanze chimiche tossiche molto resistenti alla decomposizione, che costituiscono una grave minaccia per la salute degli organismi in quanto per la loro elevata lipoaffinità, tendono ad accumularsi negli organismi.

Noi continuiamo a credere che l’oceano profondo sia ancora un regno remoto e incontaminato, al sicuro da impatti di natura antropica, ma la nostra ricerca dimostra, purtroppo che siamo molto lontani dalla verità – ha affermato Prof. Alan J. Jameison, docente di Biologia ed Ecologia Marina all’Università di Newcastle e principale autore dello studio – In realtà, abbiamo rilevato che gli anfipodi analizzati contenevano livelli di contaminanti simili a quelli che si riscontrano nella Baia giapponese di Suruga, una delle aree più inquinate del Nord-ovest del Pacifico. Quello che non sappiamo ancora è che cosa questo significhi per l’ecosistema più grande e la sua comprensione sarà la prossima grande sfida“.

Il team di ricerca ha utilizzato dei sottomarini robot di acque profonde, progettati dallo stesso Jameson per catturare a profondità variabili tra i 7.000 e 10.000 campioni di tre specie endemiche di anfipodi che vivono negli abissi delle fosse e che si nutrono di “neve marina“, la pioggia di materiale organico che cade dagli strati più alti della colonna d’acqua dell’oceano.
Nei campioni analizzati dei loro tessuti e sostanze grasse sono riscontrati livelli elevati di due gruppi di inquinanti organici persistenti (POP), fino a 50 volte superiori a quelli riscontrati negli organismi presenti nei fiumi e nelle acque marine delle aree più inquinate del mondo:
– i policlorobifenili (PCB);
– i polibromodifenileteri (PCBDE).
I primi utilizzati come isolanti elettrici sono stati messi al bando nel 1970, ma dal 1930, anno in cui è iniziata la loro produzione, ne sono stati immessi sul mercato mondiale 1,3 milioni di tonnellate.
I secondi sono stati usati fino agli anni ’80 nell’industria petrolifera e, ancora oggi, in alcune miscele per vari scopi commerciali, principalmente come ritardanti di fiamma, anche se dal 2003 nell’UE sono state introdotte forti limitazioni alla loro produzione.
Il fatto che abbiamo trovato livelli così straordinari di questi inquinanti in uno degli habitat più remoti e inaccessibili della terra mette in risalto il devastante impatto a lungo termine che l’umanità sta avendo sul pianeta – ha osservato Jamieson – Non è una grande eredità che ci stiamo lasciando alle spalle“.

La loro diffusione nell’ambiente può riferirsi a sversamenti accidentali del passato e da discariche mal controllate, ma gli autori dello studio suggeriscono che gli inquinanti si sono infiltrati nelle profondità oceaniche soprattutto attraverso i detriti di plastica e i resti degli animali morti che affondano e che vengono consumati dagli anfipodi e altri organismi che, a loro volta, diventano cibo per animali di maggiori dimensioni.
Gli oceani costituiscono il più grande bioma del pianeta, con il rischio sempre meno remoto che le masse d’acqua più in profondità costituiscano potenziali lavandini per gli inquinanti e i rifiuti che vengono immessi nei mari. 
Questi inquinanti, poi, si accumulano lungo la catena alimentare così che quando raggiungono l’oceano profondo, le concentrazioni siano di molte volte superiori a quella delle acque di superficie.
Siamo molto bravi ad assumere un approccio ‘lontano dagli occhi lontano dal cuore’ quando si tratta delle profondità oceaniche, ma non possiamo permetterci di abbassare la guardia – ha concluso Jameison – La ricerca dimostra, infatti, che quel che abbiamo scaricato sul fondo dei mari, prima o poi ci ritorna in superficie, magari sotto un’altra forma“.

Immagine di copertina: NOAA Okeanos explorer

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