Biodiversità e conservazione Circular economy

Grandi scimmie africane: minacciate da estrazione minerali critici

Un recente Studio pubblicato su Science Advances ha rilevato che la crescente domanda di minerali critici e altri elementi delle terre rare, necessari per la transizione verso l’energia pulita, sta determinando un’impennata di attività mineraria in Africa che rischia di mettere in pericolo la sopravvivenza di un terzo delle grandi scimmie presenti nelle regioni dove è in atto o sono programmate tali attività, indicando implicitamente l’importanza del recupero e riciclo dei RAEE,

Più di un terzo dell’intera popolazione di grandi scimmie in Africa, quasi 180.000 individui, deve affrontare minacce dirette o indirette derivanti dalle attività minerarie correlate alla crescente domanda di minerali critici, come rame, litio, nichel, cobalto e altri elementi delle terre rare, necessari per la transizione su larga scala verso un’energia più pulita.

Sono le conclusioni del recente Studio Threat of mining to African great apes” pubblicato sul n. 14 del 5 aprile 2024 della Rivista Science Advances e condotto da un gruppo di ricercatori del Centro germanico per la ricerca integrativa sulla biodiversità (iDivHalle-Jena-Leipzig e di Re:wild, Ong co- fondata da Leonardo Di Caprio con l’obiettivo di proteggere e ripristinare la natura nella misura e alla velocità di cui abbiamo bisogno, che hanno utilizzato i dati su siti minerari operativi e pre-operativi in ​​17 Paesi africani dove gran parte di minerali critici non è ancora sfruttata, con conseguente deforestazione delle foreste pluviali tropicali che ospitano molte specie, tra cui le grandi scimmie della famiglia tassonomica di primati classificati comeHominidae, come bonobo (Pan paniscus),scimpanzé (Pan troglodytes), gorilla orientale (Gorilla beringei), gorilla occidentale (Gorilla gorilla),inseriti nella Lista Rossa (Red List) della IUNC come in pericolo o in pericolo critico.

I ricercatori hanno definito delle aree definite zone cuscinetto di 10 km per tenere conto degli impatti diretti, come la distruzione dell’habitat e l’inquinamento luminoso e acustico, e altre zone cuscinetto di 50 km per gli impatti indiretti legati all’aumento dell’attività umana vicino ai siti minerari dove vengono costruite nuove strade e infrastrutture per accedere a queste aree un tempo remote e dove molte persone migrano in cerca di lavoro. Tutto questo, a sua volta, fa aumentare la pressione sulle grandi scimmie e sul loro habitat attraverso l’aumento della caccia, la perdita di habitat e un maggiore rischio di trasmissione di malattie.

Integrando i dati sulla distribuzione della densità delle grandi scimmie, i ricercatori hanno studiato quante scimmie africane potrebbero essere potenzialmente influenzate negativamente dall’attività mineraria e hanno mappato le aree in cui si sovrapponevano frequenti attività di estrazione mineraria e alte densità di scimmie.

Sovrapposizione tra la distribuzione della densità delle scimmie e le aree minerarie in Africa. (A) Proporzione della popolazione di scimmie minacciata dall’attività mineraria (aree minerarie operative e pre-operative) con le zone cuscinetto di 10 km (tonalità scure) e con quelle di 50 km (tonalità chiare) per i Paesi con areale nelle diverse regioni. Stime regionali totali della percentuale di popolazioni di scimmie minacciate dall’attività mineraria in (B) Africa occidentale, in (C) Africa centrale e (D) Africa orientale.

Dallo Studio emerge che più di un terzo dell’intera popolazione di grandi scimmie in Africa, quasi 180.000 individui, deve affrontare minacce dirette o indirette derivanti dalle attività minerarie, e sono quelle dell’Africa occidentale (Liberia, Sierra Leone, Mali e Guinea) dove le sovrapposizioni tra aree ad alta densità di grandi scimmie e aree minerarie – comprese le zone cuscinetto di 10 e 50 km – ad essere maggiormente colpite. La sovrapposizione più significativa tra densità mineraria e densità di scimpanzé – sia in termini di proporzione della popolazione che di numero complessivo – è stata riscontrata in Guinea, dove più di 23.000 scimpanzé, ovvero fino all’83% della popolazione del Paese, potrebbero essere colpiti direttamente o indirettamente dalle attività minerarie. In generale, le aree più sensibili – quelle con densità di scimmie e di miniere relativamente elevate – non sono protette.

Attualmente, studi su altre specie suggeriscono che l’attività mineraria danneggia le scimmie attraverso l’inquinamento, la perdita di habitat, l’aumento della pressione venatoria e le malattie, ma questo è un quadro incompleto – ha affermato Jessica Junker, ricercatrice presso Re:wild ed ex ricercatrice post-dottorato presso iDiv e principale autrice dello Studio – La mancanza di condivisione dei dati da parte dei progetti minerari ostacola la nostra comprensione scientifica del suo reale impatto sulle grandi scimmie e sul loro habitat“.

I ricercatori hanno anche esplorato il modo in cui le aree minerarie si intersecano con quello che è considerato “habitat critico“, regioni cruciali per la loro biodiversità unica, non correlata alle scimmie, trovando una sovrapposizione del 20%. La designazione di habitat critico comporta rigide normative ambientali, in particolare per i progetti minerari che richiedono finanziamenti da entità come la International Finance Corporation (IFC) – una filiale della Banca Mondiale che presta fondi al settore privato – o altri finanziatori che aderiscono a standard simili. I precedenti sforzi per mappare gli habitat critici in Africa hanno trascurato porzioni significative di habitat delle scimmie che potrebbero qualificarsi come tali, secondo i parametri di riferimento internazionali come l’IFC Performance Standard 6.

Anche se gli impatti indiretti e a lungo termine dell’attività mineraria sono difficili da quantificare, spesso si estendono ben oltre i confini del progetto minerario vero e proprio. Attualmente, questi rischi sono raramente presi in considerazione e mitigati dalle compagnie minerarie. La compensazione o compensazione si basa quindi su un’approssimazione degli impatti, che secondo i ricercatori è spesso imprecisa e sottostimata. Inoltre, gli attuali schemi di compensazione sono sviluppati per durare finché sono attivi i progetti minerari (di solito circa 20 anni), mentre la maggior parte degli impatti minerari sulle grandi scimmie sono permanenti.

Le società minerarie devono concentrarsi il più possibile su come evitare l’impatto sulle grandi scimmie e utilizzare la compensazione come ultima risorsa, poiché attualmente non esiste alcun esempio di compensazione delle grandi scimmie che abbia avuto successo – ha spiegato Genevieve Campbell della IUCN, ricercatrice senior presso Re:wild. e co-autrice dello Studio – L’osservanza deve avvenire già durante la fase di esplorazione, ma sfortunatamente questa fase è scarsamente regolamentata e i ‘dati di base’ vengono raccolti dalle aziende dopo molti anni di esplorazione e distruzione dell’habitat. Questi dati quindi non riflettono accuratamente lo stato originale delle popolazioni di grandi scimmie nell’area prima degli impatti minerari”.

L’abbandono dei combustibili fossili è positivo per il clima, ma deve essere fatto in modo da non mettere a repentaglio la biodiversità – ha aggiunto Junker – Nella sua versione attuale potrebbe addirittura andare contro gli stessi obiettivi ambientali a cui miriamo. Le aziende, i finanziatori e le nazioni devono riconoscere che a volte può essere di maggiore valore lasciare intatte alcune regioni per mitigare il cambiamento climatico e aiutare a prevenire future epidemie”.

Tutto questo sottolinea ancora di più l’importanza del recupero di RAEE (Rifiuti di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche) che contengono queste preziose materie prime. Per questo la Commissione UE ha adottato l’anno scorso il Critical Raw Materials Act con l’obiettivo di garantire l’accesso dell’UE ad un approvvigionamento sicuro, diversificato, economicamente accessibile e sostenibile di materie prime critiche, indispensabili per un’ampia gamma di settori strategici, tra cui appunto le tecnologie per la decarbonizzazione dell’industria, per il settore digitale, aerospaziale e della difesa, attraverso azioni, tra cui almeno il 15 % del consumo annuo dell’UE deve derivare dal riciclaggio;

In Italia, però, la strada da fare è ancora lunga, dal momento che la raccolta di RAEE non supera il 37%, a fronte di un obiettivo del 65% del totale rispetto all’immesso sul mercato nei tre anni precedenti, un dato che pone il nostro Paese tra i meno virtuosi in UE, come peraltro conferma l’ultimo Rapporto del CdC-RAEE, diffuso lo scorso marzo.

In copertina: uno scimpanzé aBossou, Guinea. (Fonte: Re:wild , foto di Maegan Fitzgerald)

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1 commento

Angelo Forestan 16 Aprile 2024 at 14:41

Buon Giorno,
aggiungo un commento all’articolo per quanto si riferisce la % delle raccolta 37 % e 65 %.
Come presidente di Spirit Srl società che esegue la produzione di polveri di concentrati metallici da batterie agli ioni di litio presumo che la raccolta dei RAEE ed in particolare dei RAEE contenenti metalli ricercati come li, Co, Ni , schede elettroniche sia molto più alta del 65 %.
Esiste un mercato dei ” non rifiuti ” RAEE che sono definiti, dal detentore ” in riparazione ” . Essi sono quindi trasferiti e venduti nel Sud Est Asiatico come ” prodotti ” da riparare!.
Ciò evita :
– l’applicazione della legislazione EU sui rifiuti,
– qualsiasi forma di registrazione e quindi di relazione finale sulla destinazione,
– la definizione del valore dell’export inteso come valore commerciale ( dazio doganale ),
– Permette a paesi come la Cina di ” acquistare ” qualsiasi tipo di questi ” prodotti “, spesso sopravalutandoli per entrare in
possesso di quanto Ci hanno già venduto. Lo scopo è quello di deprimere qualsiasi realtà industriale Europea prima ancora del suo sorgere.

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