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Cibo blu: per la salute umana e del Pianeta

Nell’ambito dell’iniziativa Blue Food Assessment (BFA), sono stati pubblicati su Nature 5 studi che evidenziano le opportunità di sfruttare l’ampia diversità di cibo blu nei prossimi decenni per affrontare la malnutrizione, ridurre l’impronta ambientale del sistema alimentare e fornire mezzi di sussistenza. Uno di questi analizza l’impronta ambientale dei principali alimenti blu sia da acquacoltura che di pesca di cattura.

Il cibo blu, ovvero gli alimenti forniti dalla pesca e dall’acquacoltura, può essere più sostenibile dal punto di vista ambientale di quanto non lo sia ora, svolgendo un ruolo maggiore nel fornire diete sane e sistemi alimentari più sostenibili, equi e resilienti in tutto il mondo.

È quanto emerge dallo Studio Environmental performance of blue foods, uno dei 5 Studi sottoposti a revisione parietaria pubblicati su Nature, che evidenziano le opportunità di sfruttare l’ampia diversità di cibo blu nei prossimi decenni per affrontare la malnutrizione, ridurre l’impronta ambientale del sistema alimentare e fornire mezzi di sussistenza.

Gli studi fanno di Blue Food Assessment (BFA), un’iniziativa congiunta internazionale tra lo Stockholm Resilience Centre (Svezia), la Stanford University (USA) e l’ong globale EAT, che si pone l’obiettivo di supportare i decisori politici nella valutazione delle opportunità e nell’implementazione di soluzioni per costruire sistemi alimentari sani, equi e sostenibili, su solide basi scientifiche, a cui concorrono oltre 100 ricercatori e scienziati di 25 istituzioni.

Con l’aumento della domanda di cibo blu in tutto il mondo – ha spiegato Jessica Gephart del Dipartimento di Scienze Ambientali dell’Università di Washington (DC) e tra i principali autori dello Studio – c’è bisogno di una maggiore comprensione delle differenti pressioni ambientali esercitate da questo gruppo eterogeneo di alimenti, in modo da poter garantire un’alimentazione non solo nutriente, ma anche sostenibile”.

Gli autori dello Studio hanno analizzato i dati segnalati da oltre 1.690 allevamenti ittici e i dati di 1.000 attività globali di pesca di cattura ovvero di tutti i tipi di raccolta di risorse viventi naturali sia in ambienti marini che di acqua dolce, coprendo quasi il 75% della produzione globale.

Il documento ha osservato che le alghe e i bivalvi d’allevamento, come cozze e ostriche, generano un numero minore di emissioni di gas serra e di nutrienti e utilizzano meno terra e acqua. Anche la pesca di cattura comporta poche emissioni di nutrienti e un uso limitato di terra e acqua, pur con differenze tra le varie specie pescate, tra quelle relativamente basse, come per le sardine e il merluzzo, a quelle relativamente elevate per i pesci piatti e le aragoste, rispetto al pesce d’allevamento.

Tuttavia, secondo i ricercatori, anche le emissioni generate dalla pesca di cattura, costituite essenzialmente dal consumo di carburanti, potrebbero essere ridotte attraverso una migliore gestione e ottimizzazione dei tipi di attrezzi utilizzati.

I principali impatti derivanti dall’acquacoltura e dalla pesca di cattura. Le icone con bordo magenta sono quantificate, mentre le altre sono discusse qualitativamente (Fonte, Nature)

Molti sotto-settori del cibo blu, come l’allevamento di carpa e milkfish (cefalone), hanno anche le potenzialità di migliorare le proprie prestazioni ambientali attraverso una migliore gestione delle pratiche di allevamento, la riduzione dei rapporti di conversione dei mangimi e interventi tecnologici innovativi. In particolare, utilizzare meno mangime, ma in modo più efficiente per produrre più pesce, comporterebbe significativi vantaggi. I ricercatori stimano che la riduzione del 10% della quantità di mangime applicata in acquacoltura potrebbe ridurre tutti i fattori di stress ambientale associati all’alimentazione dei pesci (uso del suolo, uso dell’acqua, emissioni), tra l’1 e il 24%.  Se gli allevamenti ittici passassero anche a mangimi provenienti da allevamenti che non comportano deforestazioni, le emissioni associate all’alimentazione dei pesci diminuirebbero fino al 50%. Oltre a questo, anche fonti di mangime alternative come mangimi a base di insetti e alghe hanno una grande potenzialità di riduzione degli impatti.

La maggior parte dei sistemi di acquacoltura – ha sottolineato Patrik JG Henriksson, ricercatore presso lo Stockholm Resilience Centre e tra i principali co-autori dello Studio – non ha realizzato i livelli di efficienza visti nei sistemi di produzione terrestre, lasciando notevoli opportunità di ottimizzazione e miglioramento in termini di efficienza e sostenibilità”.

L’ultimo “The State of World Fisheries and Aquaculture”(SOFIA 2020) ha indicato che la domanda globale di cibo blu è prevista in aumento del 15% al 2030 rispetto al 2018, con una quota sempre maggiore dell’acquacoltura rispetto all’attuale 46%. Tale crescita è circa la metà dell’incremento registrato nel decennio precedente e si traduce in un consumo annuo pro capite di cibo per pesci che dovrebbe raggiungere i 21,5 chilogrammi entro il 2030.

Alla recente  IV Conferenza globale sull’acquacoltura Millennium +20 (Shanghai, 22-25 settembre 2021) nel corso della quale è stato adottato un Documento chiave che costituisce la road map per ottimizzare il ruolo che l’acquacoltura può svolgere nel raggiungimento dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile e il contributo offerto dal settore ai sistemi alimentari globali, il Direttore della FAO Qu Dongyuha dichiarato che l’Organizzazione nel Quadro strategico 2022-2031, attraverso il Programma prioritario Blue Transformation, si è posta  l’obiettivo di sostenere una crescita del 35-40% dell’acquacoltura globale entro il 2030.

Investire nell’innovazione e migliorare la gestione della pesca potrebbe aumentare il consumo e avere effetti profondi sulla malnutrizione. Ad esempio, in uno scenario di modellizzazione di “alta crescita”, l’aumento dell’offerta dell’8%, avrebbe un impatto sul calo dei prezzi, riducendo le carenze nutrizionali di 166 milioni di individui, soprattutto tra le popolazioni a basso reddito.

È stato riscontrato che il cibo blu si classifica più in alto rispetto agli alimenti di origine animale terrestre in termini di benefici nutrizionali e guadagni in termini di sostenibilità. Molte specie alimentari blu sono ricche di importanti nutrienti. Rispetto al pollo, la trota ha circa 19 volte più acidi grassi omega-3; ostriche e cozze hanno 76 volte più vitamina B-12 e 5 volte più ferro; e le carpe hanno 9 volte più calcio. I benefici nutrizionali del cibo blu sono particolarmente importanti per le donne, che hanno scoperto di beneficiare più degli uomini dall’aumento del consumo in quasi tre volte il numero di Paesi studiati.

In media, le principali specie prodotte in acquacoltura, come la tilapia, il salmone, il pesce gatto e la carpa, hanno un’impronta ambientale paragonabile al pollo, la carne di terra a minor impatto. Le piccole specie pelagiche come sardine e acciughe, bivalvi e alghe offrono già fattori di stress inferiori rispetto al pollo.

Le persone stanno cercando di fare scelte più informate sul cibo che mangiano – ha affermato Benjamin Halpern, ecologo marino presso la Bren School of Environmental Science & Management dell’Università di California-Santa Barbara, co-autore dello Studio – Per la prima volta abbiamo raccolto i dati di centinaia di studi su un’ampia gamma di specie ittiche per aiutare a rispondere a questa domanda. Il cibo blu nel complesso risponde bene a questa esigenza e fornisce un’ottima opzione per il cibo sostenibile“.

La ricerca ha scoperto anche che i sistemi alimentari blu che devono affrontare rischi maggiori per effetto dei cambiamenti climatici si trovano essenzialmente in quelle regioni dove le persone fanno più affidamento su di loro e che sono meno attrezzate per rispondere e adattarsi ai rischi climatici.

I cambiamenti climatici stano creando ogni sorta di rischio per l’umanità, compreso il nostro cibo – ha aggiunto Halpern – Il cibo blu seppur costituito da varie specie, deve affrontare alcuni rischi unici comuni come l’acidificazione e il riscaldamento delle acque. Ma non tutti gli alimenti sono ugualmente vulnerabili a questi rischi: nel nostro lavoro mostriamo dove, come e perché diversi cibi blu affrontano rischi diversi per effetto dei cambiamenti climatici”.

Il gruppo di scienziati e ricercatori che ha condotto lo Studio è convinto che la loro ricerca abbia colmato le lacune presenti in studi precedenti sugli stress ambientali associati alla produzione alimentare, che spesso escludono il cibo blu, e qualora sia incluso, è solitamente aggregato, trascurando la vasta gamma di specie che ne fanno parte. Inoltre, lo studio consentirà alle imprese, ai certificatori, alle ONG e ad altre parti interessate, compresi i consumatori, di prendere decisioni più informate su come supportare il cibo blu sostenibile, contribuendo anche a evidenziare la ricca diversità e varietà del settore.

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