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PFAS negli alimenti: in Veneto estensione maggiore della zona rossa

Un nuovo Studio condotto da ricercatori delle Università di Firenze e Padova, con la collaborazione di Greenpeace e il Comitato Mamme No PFAS ha rilevato la presenza di sostanze perfluoroalchiliche negli alimenti provenienti dall’area del Veneto contaminata da tali sostanze, pericolose in particolare per i bambini, più estesa dell’area dell’acquifero che le trasporta (zona rossa), contaminato dagli sversamenti della Miteni, per il quale disastro ambientale è iniziato l’atteso processo.

In una vasta area compresa tra le province di Vicenza, Verona e Padova, si è consumato negli anni a partire dal 1965 uno dei maggiori episodi di contaminazione ambientale da sostanze perfluoroalchiliche (PFAS). La fonte principale di esposizione umana è stata l’acqua, sia tramite la falda acquifera sia tramite gli acquedotti che si approvvigionavano alla stessa falda (la cosiddetta zona rossa A e B). Il contributo degli alimenti all’esposizione umana è stato valutato ricorrendo a un campionamento condotto negli anni 2016-2017. Una valutazione complessiva è stata pubblicata dall’Istituto superiore di sanità. Disponendo dei dati relativi ai singoli campioni, è stato possibile valutare la presenza e l’entità della variabilità spaziale della contaminazione alimentare, globalmente e per le singole matrici. La contaminazione appare diffusa, ma gli alimenti contaminati si concentrano in alcune aree e questo pone importanti quesiti circa le modalità con cui questa distribuzione si è determinata.

È il riassunto dello Studio Sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) negli alimenti dell’area rossa del Veneto”, condotto dalle da ricercatori delle Università di Firenze e Padova, con la collaborazione del Comitato Mamme No PFAS e di Greenpeace Italia, e pubblicato su Epidemiologia & Prevenzione, la Rivista dell’Associazione Italiana di Epidemiologia.

Le sostanze perfluoroalchiliche (PFAS), sono un gruppo di sostanze chimiche di sintesi  comprendente l’acido perfluoroottanoico (PFOA), il perfluoroottano sulfonato (PFOS), l’acido perfluorononanoico (PFNA), l’acido perfluoroesano sulfonico (PFHxS), e molte altre. Le PFAS vengono prodottee utilizzate sin dagli anni ’40 in tutto il mondo in diversi tipi di applicazioni, tra cui l’impermeabilizzare tessuti per mobili ed esterni, nelle schiume antincendio, nei rivestimenti metallici antiaderenti per padelle, negli imballaggi in carta per alimenti, in creme e cosmetici, nelle vernici e in fotografia, nella cromatura, in pesticidi e prodotti farmaceutici.

Alcune PFAS non si scompongono nell’ambiente né nell’organismo umano e possono accumularsi nel tempo. L’esposizione può causare effetti nocivi sulla salute. Secondo l’ultima valutazione dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), in base alla quale sono stati rivisti al ribasso i limiti di tollerabilità tenendo conto dell’effetto cocktail, neonati, i bambini piccoli e gli altri bambini sono i più esposti. La gravidanza e l’allattamento al seno sono i principali fattori che contribuiscono all’esposizione dei neonati. Inoltre, studi su animali hanno evidenziato che alcune PFAS (PFOS e PFOA) indeboliscono la risposta ai vaccini e i PFOS causano una ridotta resistenza alle infezioni.

È la Regione Veneto, in particolare un’area che ha per centro il comune di Lonigo e che comprende 30 Comuni delle province di Verona, Vicenza e Padova, su cui insistono 350.000 abitanti, la Regione più contaminata da PFAS. Il caso era esploso all’inizio del 2017 dopo l’indagine dell’ASL locale che, a seguito del riscontro di elevati quantità di questi inquinanti nell’acqua potabile, aveva sollecitato le famiglie a sottoporre a screening ragazzi e ragazze dai 14 anni in su. I risultati di quelle analisi hanno rivelato livelli di concentrazioni di PFAS nel sangue di gran lunga superiori ai valori allora ammessi. Tant’è che l’esito di quegli esami determinò la costituzione del Comitato Mamme No PFAS, inizialmente composto dalle sole madri, ma in seguito da padri e altri portatori di interesse.

Sulla vicenda si è aperto il processo nei confronti dei dirigenti della Ditta Miteni di Trissino (VI), responsabile degli sversamenti che hanno causato l’inquinamento da PFAS nelle falde acquifere dell’area fin dalla metà degli anni ’60, e di quelli delle altre società che si sono succedute nel corso degli anni. Il Comitato Mamme No PFAS è tra le parti civili al processo e in merito aveva richiesto alla Regione Veneto di aver accesso ai dati in suo possesso, ma la Regione li aveva negati fino a quando non è stata costretta dal TAR.

Proprio su tali ulteriori dati si è basato lo Studio che ha constatato come l’area più contaminata da tali composti, la cosiddetta “zona rossa”, non è uniforme nei vari comuni: Oltre all’area del plume di contaminazione (la parte dell’acquifero sotterraneo che trasporta le sostanze inquinanti), centrata su Lonigo (VI), anche i prodotti animali e vegetali prelevati lungo la direttrice del fiume Fratta, nei comuni di Montagnana (PD), Bevilacqua e Terrazzo (VR), mostrano elevate probabilità di essere contaminati.

Si conferma una contaminazione diffusa negli alimenti provenienti dall’area rossa che pone importanti interrogativi sulle modalità con cui questa distribuzione si è determinata – ha dichiarato Annibale Biggeri, Professore ordinario di Statistica Medica dell’Università di Firenze, tra gli autori della ricerca – Le matrici animali sono di gran lunga più contaminate rispetto a quelle vegetali e mostrano una differente presenza delle singole molecole: informazioni preziose per disegnare correttamente le future campagne di monitoraggio.

Dallo studio, i cui esiti dipendono in larga parte dai criteri geografici che hanno guidato il campionamento effettuato dalla Regione e dal ricevimento, solo parziale, degli esiti analitici, emerge che le concentrazioni di PFAS negli alimenti non solo differiscono in base alla matrice alimentare considerata, ma anche per tipo di molecola. Nei prodotti di origine vegetale, infatti, sono più presenti le PFAS a catena corta (PFBA, PFPeA e PFHxA). Al contrario, nei prodotti di origine animale risultano più abbondanti i composti a catena lunga.

È paradossale che ancora una volta siano Greenpeace e le Mamme No PFAS a svolgere il ruolo che spetterebbe agli enti preposti, appellandosi agli scienziati per cercare di comprendere appieno come le PFAS si distribuiscano negli alimenti provenienti dai comuni dell’area rossa – sottolineano nel Comunicato Greenpeace e Mamme No PFAS – D’altra parte, che cosa possiamo aspettarci dal governo di una Regione che a partire dal 2017, anno dell’ultimo monitoraggio, non è stato in grado di analizzare alcun nuovo campione e ha fatto dell’inerzia il suo mantra? Ci auguriamo che il nuovo monitoraggio, promesso di recente da alcuni funzionari regionali in seguito alle nostre denunce, tenga conto delle gravi criticità che interessano gli alimenti provenienti da tutta l’area attraversata dal fiume Fratta, e non solo dal tratto che ricade nella zona rossa”.

La Commissione UE ha adottato lo scorso maggio il Piano di azione Azzerare l’inquinamento atmosferico, idrico e del suolo”, uno dei principali obiettivi del Green Deal europeo, assieme alla Strategia sulle sostanze chimiche per la sostenibilità, adottata lo scorso anno, che prevede, tra l’altro, l’eliminazione progressiva dai prodotti di consumo delle sostanze più pericolose nell’UE, salvo nei casi in cui è dimostrato che tale uso è essenziale per la società, tra cui le PFAS “necessitano di particolare attenzione, tenuto conto del numero elevato di casi di contaminazione del suolo e dell’acqua, compresa l’acqua potabile, registrati nell’UE e a livello mondiale, del numero di persone affette da un’ampia gamma di patologie e dei relativi costi socio-economici“, stimati tra 52 e 84 miliardi di euro all’anno

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