Benessere Economia e finanza Malattie e cure Salute Società

Rapporto OCSE: la vita degli anziani meno in salute e più insicura

OCSE sistemi sanitari-non adeguati a invecchiamento popolazione

Ad oggi, nel mondo, gli “over 60” sono 868 milioni, pari al 12% della popolazione, ma entro il 2050 saranno oltre 2,4 miliardi ovvero due persone su dieci, superando, per la prima volta, il numero degli “under 16”.

È questa la fotografia scattata dall’OCSE, l’organizzazione internazionale di studi economici dei Paesi più sviluppati, nel suo ultimo Rapporto “Ageing: Debate the Issues”, dedicato agli anziani, diventati un “fenomeno demografico”, non solo per i Paesi economicamente avanzati.

Secondo gli esperti dell’OCSE, le cause non possono che essere ricondotte a due ragioni principali: la nascita di meno bambini e aspettative di vita più lunghe.

Negli anni ’70 la media dei figli nei Paesi OCSE era di 2,7 per donna; oggi siamo a 1,7, cioè ben lontano dal “tasso di sostituzione” necessario per mantenere stabile il numero della popolazione ( 2,1 figli per donna).

La longevità, invece, è legata a diversi fattori: migliore alimentazione, maggiore disponibilità di acqua potabile, progressi della medicina e vaccinazioni di massa.

Un fenomeno di questa portata non può essere circoscritto solo a dibattiti demografici per l’entità delle ripercussioni sociali che comporta.
Non casualmente tra i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, approvati dall’Assemblea delle Nazioni Unite lo scorso settembre, il 3° recita “Una vita in salute per tutti, a tutte le età!

Attualmente, gli anziani dei Paesi dell’OCSE godono di discreta salute (2 su 5 dichiarano di essere in buona salute) e sono anche “produttivi” rivestono un ruolo sempre più importante quando sono chiamati ad occuparsi, a costo zero, dei nipoti e a contribuire al bilancio familiare delle generazioni più giovani.

La prospettiva di vita della popolazione dei Paesi OCSE che ha attualmente 65 anni è di viverne altri 20, la metà dei quali, tuttavia, è destinata ad essere vissuta in condizioni non ottimali di salute, con una spesa sanitaria destinata a crescere nei prossimi anni, mentre “i sistemi sanitari non sono ancora preparati a far fronte ad una popolazione che invecchia”.

Un esempio dell’inadeguatezza degli attuali sistemi sanitari, secondo l’OCSE, è la demenza.
Si stima che 47 milioni di persone soffrano di demenza in tutto il mondo in questo momento e la cifra è destinata a salire a 76 milioni entro il 2030.
Nei Paesi dell’OCSE, Francia, Italia, Svizzera, Spagna, Svezia e Norvegia hanno il tasso di prevalenza più alto di questa condizione (dal 6,3% al 6,5% della popolazione di oltre 60 anni).

A fronte di un’assistenza a lungo termine di cui queste persone avranno bisogno, gli attuali sistemi sono progettati per curare le malattie acute non già quelle croniche che avrebbero necessità di investimenti per personale adeguato, per corsi di formazione, di riorganizzazione delle infrastrutture.

Il modello di erogazione di assistenza sanitaria oggi prevalente non è al passo con la mutevole epidemiologia e le esigenze di salute della popolazione – si legge nel capitolo curato da Francesca Colombo, della Direzione Impieghi, Lavori e Affari Sociali – Il focus rimane spesso concentrato sulla costruzione di nuovi ospedali e sull’acquisto di costose attrezzature. E la gestione dei processi di cura resta in gran parte incentrata attorno alle necessità di assistenza episodiche”.

Al World Economic Forum (WEF), dove nell’annuale “Global Risks”, Rapporto annuale che viene redatto con la collaborazione di 750 esperti del mondo economico e finanziario per individuare le sfide che potrebbero presentarsi con gli impatti più gravi nei prossimi 10 anni alle società, l’edizione del Rapporto 2013 includeva tra i 5 “Fattori X” (problemi emergenti, meritevoli di ulteriori approfondimenti e suscettibili di creare in futuro grossi rischi economico-finanziari), i “Costi di una vita longeva” (Costs of Living Longer) ovvero quelli conseguenti all’invecchiamento sempre maggiore della popolazione mondiale e le spese da sostenere per la necessaria assistenza medico-ospedaliera.

Allora, durante il meeting di Davos , un’apposita sessione dei lavori venne dedicata all’analisi della relazione Rapporto “Sustainable Health Systems – Visions, Strategies, Critical Uncertainties and Scenarios”, in cui si affermava che “Nel clima economico attuale, molti Governi stanno prendendo di mira la spesa sanitaria per la riduzione dei costi come parte di più ampi programmi di austerità. In una discussione sulla sostenibilità a lungo termine è opportuno garantire che le priorità a breve termine non danneggino il valore delle scelte a lungo termine. I leader dei sistemi sanitari devono pensare al futuro, ampliando il gruppo dei portatori di interessi responsabili e troncando ogni rapporto con l’attuale situazione per fornire servizi sanitari sostenibili, di alta qualità, accessibili a tutti, a prezzi abbordabili”.

Non ci pare che tali consigli siano seguiti, in particolare in Italia, nonostante il nostro Paese abbia la popolazione più anziana d’Europa e si collochi al 2° posto, dopo il Giappone, a livello globale.

Oltre ai sistemi sanitari, un altro aspetto che secondo il Rapporto dell’OCSE deve essere tenuto sotto costante vigilanza per effetto dell’allungamento della vita sono i sistemi previdenziali.

Al 2050, in Europa per ogni lavoratore attivo ci sarà un anziano inattivo, con una riduzione del PIL del 30% rispetto al 2000, con la necessità di dover allungare gli anni di lavoro e il rischio assai probabile per la generazione degli attuali quaranta-cinquantenni di prendere una pensione più bassa rispetto a quella precedente.

Nei Paesi OCSE, la percentuale più alta della fascia di età tra 54 e 64 anni al lavoro si riscontra in Islanda (86,5), seguita da Nuova Zelanda (74,5%), Svezia (74,4%), Norvegia (72,3%) e Svizzera (72,5%).
Se si considera che questi Paesi sono quelli che hanno anche le più basse percentuali di disoccupazione, diventa arduo dire che gli anziani tolgono il lavoro ai giovani e che con l’aumentare dell’età diminuisce la capacità lavorativa. Quanto meno, non è una situazione che può essere generalizzata per tutti i Paesi.

Resta il fatto, però, che con una disoccupazione che si mantiene a doppia cifra all’interno dell’area OCSE per effetto dell’attuale lungo periodo di crisi economica, pur con le differenze tra i vari Paesi, i rischi di tensioni generazionali sono elevati, dal momento che i futuri anziani avranno una vecchiaia con minori disponibilità economiche di quelle dei loro genitori che hanno potuto godere di versamenti contributivi continui, laddove i loro avranno periodi di assenza e interruzione, vista la crisi economica, che incideranno sull’assegno pensionistico e di conseguenza sulla qualità della vecchiaia. E questo non sarebbe “sostenibile” nell’accezione degli OSS dell’ONU, ma solo per gli aspetti di solvenza finanziaria e di fiscalità dei singoli Paesi.

Se si vuole che si “lavori meglio con l’età”, per mutuare il titolo di una serie di studi nazionali che l’OCSE ha dedicato sull’argomento ai singoli Paesi (“Working better with age”), bisogna dare a giovani le opportunità di trovare lavori, ridisegnando comunque sistemi previdenziali per garantire ai disoccupati di arrivare alla terza età con protezioni sociali, e trovare, al contempo, soluzioni idonee di lavoro per gli over 50 che l’hanno perduto e per gli over 64 che non potranno continuare le attività usuranti quali quelle, eventualmente svolte fino allora… a meno che non si voglia adottare la soluzione di quel padre della canzone “Eppure sembra un uomo” di Giorgio Gaber: “i vecchi bisogna ammazzarli da bambini”!

Articoli simili

Lascia un commento

* Utilizzando questo modulo accetti la memorizzazione e la gestione dei tuoi dati da questo sito web.