Malattie e cure Salute

Antichi Romani curavano l’igiene, ma non furono immuni da parassitosi

Impero romano diffusione parassiti

Agli antichi Romani si deve l’introduzione delle tecniche igienico-sanitarie che si diffusero in tutto l’impero, comprese le latrine per la popolazione, con i sedili forati per lo più in pietra o marmo (in alcuni casi anche in legno), come la pavimentazione, sotto i quali scorreva continuamente l’acqua che veniva convogliata verso il sistema fognario più vicino (cloaca). Un porticato proteggeva dalla pioggia, ma l’aerazione era garantita, anche con l’apertura di finestre sulle pareti. Di fronte ai sedili, una canaletta faceva scorrere l’acqua pulita per permettere agli utenti di lavarsi, detergendosi con spugne che venivano issate su bastoncini, dai quali venivano sfilate dopo l’uso e riposte nelle canaletta, per essere lavate prima del successivo riutilizzo.

Certo, mancava la privacy, ma quei luoghi erano “pubblici”, dove la gente si incontrava e poteva intrattenersi discutendo dei fatti del giorno o delle questioni politiche.
Queste pratiche igienico-sanitarie decaddero con la fine dell’impero romano e nel medioevo l’igiene personale era così trascurata che non ci si lavava più di una volta all’anno e al tempo di Re Sole i profumi venivano utilizzati dalle classi più abbienti per nascondere i cattivi odori del corpo.
Solo con il Novecento venne ripristinato l’uso dell’acqua corrente come profilassi per il diffondersi di malattie e parassiti.

Tuttavia, nonostante la grande importanza attribuita all’igiene del corpo e l’introduzione di una legislazione volta a mantenere le città libere da escrementi e spazzatura, durante l’epoca romana la popolazione non fu immune dalla diffusione di parassiti intestinali, come quella dei secoli precedenti e successivi, la cui infestazione aumentò con l’espansione dell’impero.
Questa conclusione è riportata nello Studio pubblicato on line l’8 dicembre 2016 su Parasitology “Human parasites in the Roman World: health consequences of conquering an empire”.

La moderna ricerca ha dimostrato che i servizi igienici, l’acqua potabile e la rimozione degli escrementi dalle strade riducono le infezioni di malattie e parassiti, per cui ci si aspetterebbe di non trovarne traccia nelle feci di epoca romana – ha dichiarato l’autore, il Prof. Piers D. Mitchell, del Dipartimento di Archeologia e Antropologia dell’Università di Cambridge – Viceversa, questa ultima ricerca sulla prevalenza di parassiti antichi suggerisce che i bagni, le fognature e le leggi igieniche durante l’impero romano non hanno apportato benefici evidenti alla popolazione in termini di salute pubblica”.

La ricerca condotta è la prima che abbia utilizzato le evidenze archeologiche per individuare quali parassiti fossero diffusi in epoca romana, ricercandone la traccia nelle antiche latrine, nei resti di umane sepolture nelle concrezioni fossili di materiale fecale (coproliti) di vari siti archelogici dell’impero romano. Mitchell vi ha rinvenuto parassiti intestinali facilmente trasmissibili come tricocefalo, nematodi e Entamoeba histolytica che provoca la dissenteria, in quantità superiore a quella che si è ritrovata in reperti dell’Età del Ferro. Non solo. Si è constatato che la loro diffusione è risultata via via maggiore quanto più il sito di rinvenimento era ai confini dell’Impero.

Dall’esame di alcuni speciali pettini e resti tessili rinvenuti durante gli scavi si è capito che anche gli “ectoparassiti” (pidocchi, pulci, cimici) erano diffusi e il loro numero è stato stimato in numero non inferiore a quello del periodo medioevale, quando le abluzioni non erano certamente pratica diffusa, come sopra accennato.

Qual è il motivo di questa “sorprendente” scoperta?
Il Prof. Mitchell ha avanzato alcune ipotesi, tra cui la consuetudine di frequentare le terme dove le acque calde avrebbe costituito un veicolo di diffusione dei vermi parassiti, anche perché non sempre le acque venivano cambiate frequentemente, poiché, “non tutte le terme erano pulite come avrebbero dovuto essere”, come osservato da Mitchell.
Un’altra ipotesi avanzata fa risalire il fenomeno alla diffusa abitudine di utilizzare gli escrementi umani in agricoltura come fertilizzanti, senza alcun processo di compostaggio, diffondendo le uova dei parassiti che sopravvivevano nelle piante coltivate.

Infine, l’abitudine assunta anche dalle popolazioni periferiche di far uso del garum, una salsa liquida a base di pesce di cui i romani erano particolarmente ghiotti, come numerosi scrittori latini ci hanno tramandato. Basta tuttavia rammentare la ricetta quale tramandataci dallo scrittore latino del III secolo d. C. Quinto Gargilio Marziale per capire il motivo per cui il Prof. Mitchell lo indichi come il più probabile veicolo di trasmissione parassitaria, in particolare di Diphyllobothrium, visto che la “teniasi del pesce” era malattia diffusissima in epoca romana: “Si usino pesci grassi come sardine e sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di 1/3, interiora di pesci vari. Bisogna avere a disposizione una vasca ben impeciata, della capacità di una trentina di litri. Sul fondo della stessa vasca fare un alto strato di erbe aromatiche disseccate e dal sapore forte come aneto, coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano, origano. Su questo fondo disporre le interiora e i pesci piccoli interi, mentre quelli più grossi vanno tagliati a pezzetti. Sopra si stende uno strato di sale alto due dita. Ripetere gli strati fino all’orlo del recipiente. Lasciare riposare al sole per sette giorni. Per altri venti giorni mescolare sovente. Alla fine si ottiene un liquido piuttosto denso che è appunto il garum. Esso si conserverà a lungo”.

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