Prodotti e acquisti verdi Sostenibilità

Fast fashion: le etichette nascondono il greenwashing

Un Rapporto di Greenpeace, pubblicato nel decennale del disastro del Rana Plaza, l’edificio crollato sotto il peso dei macchinari delle fabbriche tessili che ospitava, evidenzia che la moda a basso costo (fast fashion) si basa su un’economia lineare e il suo devastante impatto ambientale e sociale non emerge dai claim di sostenibilità dei marchi della moda.

Le aziende della fast fashion promuovono la loro presunta sostenibilità e il rispetto di migliori condizioni di lavoro dichiarando nelle etichette che i loro capi d’abbigliamento sono prodotti in modo sostenibile. Spesso si tratta però solo di greenwashing.

A ribadirlo è il Rapporto Greenwash Danger Zone” che Greenpeace Germania ha pubblicato in occasione del X anniversario (24 aprile 2023) del disastro del Rana Plaza,il cedimento strutturale di un edificio commerciale di otto piani nell’area metropolitana di Dacca (Bangladesh), in cui erano insediate 5 fabbriche tessili che producevano capi per diversi famosi marchi di moda occidentali, e che provocò 1.138 vittime e 2.515 feriti, svelando al mondo cosa si cela dietro la moda a basso costo.

Dieci anni dopo la tragedia di Rana Plaza, l’industria della moda continua a sfruttare i lavoratori e a generare enormi impatti ambientali – ha dichiarato Giuseppe Ungherese, Responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia che ha reso disponibile in italiano una Sintesi del Rapporto – Oggi proliferano sul mercato vestiti che le stesse aziende del fast fashion etichettano come eco, green, sostenibili, giusti, ma il più delle volte è solo greenwashing. Si pubblicizza una sostenibilità inesistente mentre in realtà sono in costante aumento gli abiti fatti di plastica usa e getta derivante dal petrolio, non riciclabili e per lo più prodotti in condizioni di lavoro inaccettabili”.

Un impianto all’interno della zona industriale di Binhai (Distretto di Tientsin) con cinque macchine per tintura avrà bisogno di circa 250 kg di colorante, oltre ad altri additivi. Ogni giorno circolano nello stabilimento circa 2500 kg di pasta colorante (Fonte: © Lu Guang / Greenpeace). 

Il rapporto ha svelato quel che si nasconde dietro la presunta sostenibilità di alcune etichette di noti marchi internazionali, controllando la veridicità delle informazioni riportate nelle etichette dei capi d’abbigliamento. Nell’indagine sono state controllate le iniziative di 29 aziende (H&M, Zara, Benetton, Mango ecc.) che aderiscono alla Campagna Detox, lanciata nel 2011 da Greenpeace per azzerare le emissioni di sostanze chimiche pericolose nelle filiere tessili, e quelle di marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia/Intimissimi.

Solo le iniziative di COOP “Naturaline” e Vaude “Green Shape” hanno ottenuto buoni risultati, al contrario di quelle di tutte le altre aziende esaminate. I marchi si vendono quindi per quello che non sono, ed evitano di pubblicare informazioni che permettano di valutare l’effettivo impatto ambientale. Ciò genera confusione nelle persone, spinte a credere di acquistare prodotti sostenibili ma che in realtà non lo sono. 

Sono emersi alcuni tratti comuni in molte delle iniziative esaminate, tra cui:
– il rischio di confondere i consumatori con etichette presentate come certificate ma che in realtà derivano da programmi di sostenibilità aziendali;
– la mancanza della verifica di terze parti o della valutazione del rispetto dei migliori standard ambientali e sociali;
– l’assenza di meccanismi di tracciabilità delle filiere
– la falsa narrazione sulla circolarità che si basa, ad esempio, sull’approvvigionamento di poliestere riciclato proveniente da altri settori industriali invece che da abiti usati; 
– il ricorso massiccio a termini fuorvianti come “sostenibile” o “responsabile” associato ai “materiali” che, di fatto, registrano performances ambientali solo leggermente migliori rispetto alle fibre vergini o convenzionali; 
– il continuo ricorso a mix di fibre come il “Polycotton o Policotone” spesso presentato come più ecologico; 
– la scelta di affidarsi all’indice Higg per valutare la sostenibilità dei materiali, uno strumento la cui parzialità è nota;
– il miglioramento di un singolo aspetto/parametro della produzione.

Benetton e Calzedonia/Intimissimi, i marchi italiani presi in esame nell’indagine di Greenpeace, non ottengono buoni risultati:
– il primo deve fornire molte più informazioni per riuscire realmente a “produrre meno e meglio”, oltre a dover rivedere la propria definizione di “cotone sostenibile
– l’altro deve passare dalle parole ai fatti rendendo veritiere le dichiarazioni sulla tracciabilità delle filiere e adottare un sistema che permetta di gestire le sostanze chimiche pericolose.

I marchi si vendono quindi per quello che non sono, ed evitano di pubblicare informazioni che permettano di valutare l’effettivo impatto ambientale. Ciò genera confusione nelle persone, spinte a credere di acquistare prodotti sostenibili ma che in realtà non lo sono. 

Il fast fashion non può essere definito sostenibile – ha concluso Ungherese – Le aziende hanno il dovere di allontanarsi da modelli di business basati su un’economia lineare e promuovere una vera economia circolare che riduca gli impatti sociali e ambientali. Allungare il ciclo di vita dei vestiti deve essere la priorità del settore, solo così eviteremo una moda basata sul greenwashing”.

Articoli simili

Lascia un commento

* Utilizzando questo modulo accetti la memorizzazione e la gestione dei tuoi dati da questo sito web.