Nel 2015 per la prima volta in tutte le aree geografiche e per l’intero anno si è superata la soglia simbolica di 400 ppm di CO2, oltre la quale si rischia di innescare cambiamenti climatici irreversibili.
Uno Studio di ricercatori della UC-Davis ha ricostruito che i livelli attesi di CO2 in atmosfera attesa in questo secolo si sono verificati sulla Terra 300 milioni di anni fa, allorché si verificarono fenomeni di notevole innalzamento dei livelli dei mari, di scioglimento delle banchise e dei ghiacciai e di sconvolgimento delle foreste tropicali, con perdita di biodiversità.
I livelli di anidride carbonica (CO2) hanno toccato livelli record nel 2015.
Lo certificano l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO), l’organismo intergovernativo delle Nazioni Unite, e il Global Atmosphere Watch, Programma internazionale coordinato dalla WMO che mette a disposizione osservazioni e analisi di alta qualità della composizione chimica dell’atmosfera e delle sue proprietà fisiche, che hanno pubblicato il 24 ottobre 2016 il 12° bollettino che contiene i dati sullo Stato dei gas ad effetto serra in atmosfera basati sulle osservazioni globali nel corso del 2015.
“Il 2015 aveva annunciato una nuova era di ottimismo e di azioni concrete sul clima con l’accordo di Parigi– ha commentato nel corso della Conferenza stampa di presentazione dei dati a Ginevra, il Segretario generale della WMO, Petteri Taalas – Ma entrerà nella storia anche come l’anno che segna l’inizio di una nuova era di cambiamenti climatici, con un record nella concentrazione dei gas serra“.
Secondo la WMO, l’evento straordinario di El Niño iniziato nel 2015 ha accelerato il fenomeno, provocando siccità nelle regioni tropicali e riducendo la capacità di assorbimento della CO2 da parte dei serbatoi di gas serra costituiti soprattutto dalle foreste e da altre forme di vegetazione, così come dagli oceani, che assorbono attualmente circa la metà delle emissioni di questo gas serra e che un giorno, divenuti saturi, potrebbero rilasciare la verso l’alto la quota di CO2 emessa che resterebbe in atmosfera.
Non è la prima volta che le concentrazioni di CO2 in alcune aree e in determinate stagioni superano le 400 ppm, limite oltre il quale si rischia, a detta degli scienziati, di innescare fenomeni pericolosi di non ritorno, ma nel 2015 è stata la prima volta che si è registrata ovunque e per l’intero anno e il Mauna Loa Observatory nelle Hawaii ha anticipato che resteranno superiori anche per tutto il 2016 e per alcune future generazioni. Iniziando adesso azioni efficaci di contrasto, benefici si avrebbero solo a partire dal 2060.
Dopo essersi complimentato con i Paesi firmatari del recente Accordo di Kigali per rivedere il Protocollo di Montréal ed eliminare progressivamente gli idrofluorocarburi, che sono dei potenti gas serra, il Segretario WMO ha ribadito che “ il problema numero 1 è la CO2, l’elefante nella stanza, che resta per migliaia di anni nell’atmosfera e per un tempo ancora più lungo negli oceani“.
Se non si affrontano le emissioni di biossido di azoto non si può lottare contro i cambiamenti climatici e contenere entro i + 2 °C l’aumento delle temperature alla fine del secolo in rapporto ai livelli pre-industriali.
Secondo Taals, è di vitale importanza che l’Accordo di Parigi entri in vigore prima possibile e che, soprattutto, vengano intraprese le azioni concrete per attuarlo.
“La questione chiave è la volontà politica, perché le tecnologie ci sono – ha concluso il Segretario WMO – Finora non abbiamo visto dei grandi cambiamenti di comportamento“.
In concomitanza con la pubblicazione della WMO, su Geoscience Nature è stato pubblicato lo studio condotto da ricercatori della University of California – Davis, utilizzando i resti fossili delle foglie imprigionate nei minerali, hanno ricostruito il periodo storico (da 330 a 260 milioni di anni fa) nel quale la concentrazione di CO2 era quella attesa in questo secolo.
“Abbiamo dimostrato che i cambiamenti climatici non incidono direttamente sulla vegetazione, ma le risposte delle piante alle variazioni climatiche possono a loro volta innescare dei cambiamenti climatici, amplificandone gli effetti e in molti casi determinando esiti imprevedibili – ha affermato Isabel P. Montañez, principale autrice dello Studio e Professoressa presso il Dipartimento di Scienze della Terra alla UC-Davis – La maggior parte delle attuali stime dei cambiamenti climatici indotti dalle concentrazioni di CO2 non tengono conto delle retroazioni che coinvolgono le foreste, così come probabilmente sottostimino l’entità dei flussi di anidride carbonica“.
L’ultima volta che il nostro Pianeta a sperimentato livelli di concentrazione superiori ai 400 ppm è stato un periodo di consistente innalzamento dei livelli dei mari, di scioglimento delle banchise e dei ghiacciai e di sconvolgimento delle foreste tropicali.
Mentre i biologi vegetali hanno studiato come i diversi alberi e le colture rispondono ai crescenti livelli di anidride carbonica, lo Studio “Climate, pCO2 and terrestrial carbon cycle linkages during late Palaeozoic glacial–interglacial cycles“ è uno dei primi a dimostrare che quando le piante cambiano il modo in cui funzionano sotto l’aumento o l’abbassamento della CO2, si determinano anche impatti in grado di provocare la loro estinzione.
“Abbiamo osservato una grande resilienza della vegetazione ai cambiamenti climatici, che è riuscita a mantenere la sua composizione e struttura stabili, nonostante i cicli glaciali e interglaciali – ha sottolineato il co-autore William DiMichele, Paleobiologo al Smithsonian Institution – Ma siamo giunti alla conclusione che quando si superano certe soglie, i cambiamenti biologici della vegetazione possono risultare assai rapidi e irreversibili“.