Acqua Mari e oceani

Greenpeace: è importante creare zone protette d’Alto mare

In occasione della Giornata Mondiale degli Oceani, Greenpeace che sta conducendo una Campagna di monitoraggio dell’inquinamento marino nel Tirreno Centrale che si concluderà proprio l’8 giugno, ci ricorda che i mari sono in crisi e che anche nel Mediterraneo sarebbe necessario creare delle Zone protette d’Alto mare.

In occasione della Giornata Mondiale degli Oceani che si celebra ogni anno l’8 giugno, Greenpeace l’Associazione ambientalista che sta portando a termine in questi giorni, assieme all’Istituto per lo studio degli impatti Antropici e Sostenibilità in ambiente marino del Consiglio Nazionale delle Ricerca (CNR-IAS) e all’Università Politecnica delle Marche il Tour MayDaySOSPlastica nel Mar Tirreno centrale per monitorare lo stato di inquinamento dei nostri mari, ci ricorda che in nostri mari sono in crisi, che in Europa il 60% delle risorse ittiche studiate e sovrasfruttato e che nel Mediterraneo la situazione è ancora più allarmante.

Una vera e propria zuppa di plastica, insieme con materiale organico di vario tipo, è quello che abbiamo trovato nel Mar Tirreno, nella zona tra Elba-Corsica-Capraia all’interno del Santuario dei Cetacei – ha affermato Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia  – Bottiglie, contenitori in polistirolo utilizzati nel settore della pesca, flaconi, buste e bicchieri di plastica per lo più imballaggi che vengono usati per pochi minuti ma restano in mare per decenni, hanno accompagnato la nostra navigazione. Quello che abbiamo documentato dimostra come la plastica sia ovunque, anche in aree che sulla carta dovrebbero essere protette, come il Santuario Pelagos. In questo tratto di mare, per una convergenza di correnti, si crea un hotspot di plastica che si estende in uno spazio di alto valore naturalistico per la presenza di numerose specie di cetacei”.

La comunità scientifica internazionale ritiene che almeno il 30% degli oceani dovrebbe essere totalmente protetto entro il 2030. Le acque d’Alto mare ovvero quelle che sono definite anche come “acque internazionali”, perché al di fuori della giurisdizione dei singoli Stati, costituiscono un enorme patrimonio globale e rappresentano circa il 61% della superficie degli oceani e il 73% del loro volume, e ricoprono il 43% della superficie del Pianeta. L’Alto mare è estremamente ricco di vita marina e di ecosistemi ed è essenziale per un sano funzionamento del nostro Pianeta, ma è minacciato da molteplici fattori di stress causati dall’uomo.

Il valore dei santuari marini, ovvero aree completamente libere da ogni attività di sfruttamento umano, è ampiamente riconosciuto come strumento in grado non solo di proteggere habitat e specie chiave, ma di permetterne il recupero e favorirne la capacità di adattarsi agli attuali cambiamenti ambientali.

Purtroppo, ad oggi le leggi che regolano le attività nelle zone d’Alto mare sono deboli e/o mancanti, e le zone oceaniche che non sono sotto giurisdizione degli stati costieri sono lasciate in balia dell’interesse di pochi stati ricchi e potenti. Oggi ci troviamo di fronte ad una opportunità unica per tutelare i nostri oceani: nel 2018 sono iniziati i negoziati per un Accordo Globale che dovrebbe stabilire precisi strumenti per la tutela della vita marina e habitat al di fuori delle giurisdizioni nazionali che si concluderanno nel 2020. Tale Accordo Globale è fondamentale per stabilire un sistema che permetta di sviluppare una rete di santuari oceanici in zone d’Alto mare, riformandone le regole di gestione per tutelare un patrimonio comune dell’umanità.

A tal fine, Greenpeace ha pubblicato il Rapporto30×30: A Blueprint For Ocean Protection”, realizzato da un gruppo di ricercatori guidati da un team dell’Università di York nel Regno Unito, che mostra come sia possibile progettare una rete di aree protette d’Alto mare su scala planetaria partendo dalle informazioni disponibili.

Il processo di progettazione utilizzato per sviluppare la proposta rete di aree protette ha come obiettivo quello di aumentare la resilienza degli oceani, ovvero migliorare la loro capacità a reagire cambiamenti e incertezze ambientali sempre più ampi grazie a:
– un approccio alla selezione degli habitat che punti sulla riduzione dei rischi;
– un’ampia copertura per promuovere i collegamenti tra un’area e l’atra e rifugi di ultima istanza;
– lo studio delle temperature della superficie marina per identificare aree in grado di cambiare più lentamente o di adattarsi più facilmente allo stress causato dall’aumento delle temperature.

Lo scenario di tutela sviluppato dai ricercatori si basa su dati biologici, oceanografici, biogeografici e socio-economici, come la distribuzione di specie chiave quali squali o balene, di montagne sottomarine, sorgenti idrotermali, fronti oceani, correnti, pressione della pesca commerciale e rivendicazioni di estrazioni minerarie.

Nello sviluppare questo network si è cercato di evitare aree intensamente utilizzate dalle flotte di pesca d’altura in modo da ridurre possibili interruzioni dell’attività di pesca, e minimizzare potenziali impatti socio-economici. Il presente modello prevede lo spostamento solo di un 20-30 per cento delle flotte, che essendo flotte d’alto mare sono comunque abituate a muoversi per ampie distanze. Per tutte le attività di estrazione mineraria dai fondali marini viene proposta una moratoria temporanea per garantire che tutte le opzioni siano lasciate aperte fino a che non venga creata una rete di aree protette.

I risultati di questo rapporto mostrano che è del tutto fattibile progettare e realizzare una rete ecologicamente rappresentativa, estesa su tutto il pianeta, di aree protette in alto mare per affrontare la crisi dei nostri oceani e consentirne il recupero. Il bisogno è immediato e gli strumenti sono già disponibili. Tutto ciò che serve è la volontà politica. Creando uno strumento internazionale legalmente vincolante, che consenta di proteggere la vita e gli habitat marini al di fuori della giurisdizione nazionale, i Governi membri delle Nazioni Unite hanno l’opportunità di porre basi robuste per creare e gestire santuari in alto mare

Il Mediterraneo per ragioni bio-geografiche e di estensione, è molto diverso dalle altre zone d’alto mare presenti nei grandi oceani e non è stato incluso nella mappa presentata nel Rapporto. Tuttavia, osserva Greenpeace, questo non significa che esso non necessiti di protezione. Pur rappresentando meno dell’1% dei mari del Pianeta, ospita circa l’8% delle specie marine note, tra cui la balenottera comune e la foca monaca.

Il Mediterraneo è un’area marina profondamente sotto pressione dove è necessario muoversi con urgenza per risolvere gli attuali problemi di governance e garantire la reale tutela delle sue aree più sensibili8. Per conformazione, il Mediterraneo presenta una stretta piattaforma continentale, seguita da un’ampia area dove le profondità si aggirano intorno ai 1.500m, superando i 5.000m nel Mar Ionio. Mentre per ragioni geologiche, la piattaforma continentale (e le sue risorse) è completamente compresa nella giurisdizione nazionale degli stati costieri, per complesse ragioni geopolitiche nessuno dei 24 Stati che si affacciano sul Mediterraneo ha dichiarato le proprie EEZ (Zone Economiche Esclusive) per cui la maggior parte delle acque del Mediterraneo sovrastante la piattaforma continentale sono considerate “Alto mare”.

Oltre il limite delle acque territoriali (di solito 12 miglia nautiche, ma in alcuni casi solo 6 miglia nautiche, quindi tra i 24 e i 12 km) le acque ricadono al di fuori delle giurisdizioni nazionali. Solo recentemente, sul versante occidentale del Mediterraneo alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, hanno iniziato a stabilire delle ZPE (Zone di protezione ecologica, considerate una parziale attuazione delle EEZ, per quanto riguarda la protezione dell’ambiente marino

La crisi del Mediterraneo è evidente, sottolinea Greenpeace, e la comunità scientifica teme che sotto la pressione di molteplici fattori, dalla pesca eccessiva all’inquinamento, si possano innescare fenomeni degenerativi irreversibili (estinzione di specie, perdita di funzioni eco-sistemiche). Recenti studi scientifici hanno evidenziato che oltre il 93% degli stock ittici analizzati sono sovrasfruttati e che negli ultimi 50 anni il Mediterraneo ha perso circa il 41% dei mammiferi marini .

Greenpeace da anni chiede la tutela di aree chiave del Mediterraneo: è del 2006 la proposta di realizzare un network di santuari marini totalmente protetti che includa aree particolarmente sensibili, come il Canale di Sicilia . Da allora diverse iniziative internazionali tra cui la Convenzione di Barcellona, ma anche la Convenzione sulla Biodiversità, attraverso il processo per la descrizione delle EBSA (Aree marine ecologicamente o biologicamente significative) hanno identificato aree chiave del Mediterraneo che andrebbero sottoposte a tutela.

In copertina: L’immagine del frontespizio del Rapporto di Greenpeace che mostra uno squalo balena (Rhincodon typus) fotografato da Paul Hilton nel Parco Marino della Baia di Cenderawasih (Indonesia).

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