Uno Studio di un Gruppo internazionale di ricercatori supporta l’approccio dell’IPBES di inserire le conoscenze indigene e locali (ILK) nelle procedure di valutazione degli ecosistemi e delle iniziative di conservazione.
Nel 2017, gli Stati membri dell’IPBES (Piattaforma Intergovernativa sulla Biodiversità e sui Servizi Ecosistemici), considerata una sorta di IPCC dedicata alla Biodiversità, hanno adottato un approccio ILK (indigenous and local knowledge), un meccanismo partecipativo che include le conoscenze delle popolazioni indigene e delle comunità locali nelle procedure per la valutazione degli ecosistemi e dei servizi ecosistemici alle persone.
A supporto dell’importanza e della validità di tale approccio, lo Studio “Working with Indigenous and local knowledge (ILK) in large‐scale ecological assessments: Reviewing the experience of the IPBES Global Assessment”, pubblicato il 28 luglio 2020 sul Journal of Applied Ecology e condotto da un folto gruppo internazionale di ricercatori coordinato dal Department of Human Ecology della Rutgers University (NJ-USA), conferma e dimostra l’importanza delle conoscenze indigene e locali per il monitoraggio dei cambiamenti ecosistemici e delle iniziative di conservazione.
Il team ha raccolto più di 300 indicatori sviluppati dagli indigeni per monitorare il cambiamento degli ecosistemi e la maggior parte di questi ha rivelato tendenze negative, come un aumento delle specie invasive o cambiamenti nella salute degli animali selvatici. Tale conoscenza locale influenza le decisioni su dove e come cacciare, avvantaggia la gestione degli ecosistemi ed è importante per il monitoraggio scientifico su scala globale.
“Gli scienziati e le comunità indigene che lavorano insieme sono necessari per comprendere il nostro mondo in rapida evoluzione – ha affermato Pamela McElwee, Professoressa presso il Dipartimento di ecologia umana presso la School of Environmental and Biological Sciences della Rutgers University e principale autrice dello Studio – Molte popolazioni indigene hanno capacità uniche di osservare come gli ecosistemi si alterano sotto i loro occhi, utilizzando indicatori locali, come il colore del grasso nelle prede cacciate o i cambiamenti nei tipi di specie trovati insieme. Gli scienziati non sarebbero in grado di eseguire questo tipo di osservazioni a lungo termine per molte ragioni, compresi i costi e la lontananza di alcune aree. Quindi la conoscenza degli indigeni è assolutamente essenziale per comprendere gli impatti cumulativi della perdita di biodiversità e del degrado degli ecosistemi“.
Lo Studio fa seguito al Rapporto di valutazione globale sulla biodiversità e sui servizi ecosistemici, pubblicato lo scorso anno dall’IPBES, uno studio gigantesco di circa 1.800 pagine, sul quale per 3 anni hanno lavorato 150 esperti di alto livello provenienti da 50 Paesi, che ha utilizzato per la prima volta la conoscenza locale e indigena come fonte di prova.
“Lavorare con queste fonti locali di informazioni nella ricerca ecologica e nella gestione richiede un approccio deliberato sin dall’inizio, risorse aggiuntive e impegno con le parti interessate che riflettano diverse visioni del mondo – ha aggiunto la McElwee.- La collaborazione con le popolazioni indigene e locali può aiutare gli scienziati e i ricercatori a capire come i sistemi naturali e culturali si influenzino reciprocamente, a identificare le tendenze attraverso diversi indicatori e a migliorare gli obiettivi e le politiche di sviluppo sostenibile per tutti“.
Attualmente è in corso una call (scadenza 15 settembre 2020) per contributi sulle conoscenze indigene e locali per invitare le popolazioni e comunità locali a fornire informazioni di supporto alle 3 valutazioni dell’IPBES in corso:
– uso sostenibile delle specie selvatiche;
– diversità concettuali del valore della natura;
– specie esotiche invasive.