A Slow Fish presentato il Rapporto del WWF “Gusti locali, mercati globali – Le risorse ittiche e il Mediterraneo” che mette in evidenza lo squilibrio tra la domanda di prodotti ittici dell’area euromediterranea e l’offerta, sia per la continua riduzione dei quantitativi pescati che per scarsa informazione consapevole del consumatore. Presentata nell’occasione dalla Conferenza delle Regioni la “Carta di Genova” con le principali azioni, anche di tipo normativo, che le Regioni ritengono indispensabili per il rilancio e la valorizzazione del settore della pesca in Italia.
Nel Mediterraneo il pesce è una questione importante. Le comunità di pescatori, i mercati e i ristoranti di pesce e il patrimonio marino sono elementi essenziali nella definizione dell’identità culturale, sociale ed economica della regione. Questa identità rende orgogliosi i locali e attrae i turisti. L’abbondanza di pesce fresco locale sul mercato è parte del Mediterraneo così come lo sono le spiagge e il clima mite e soleggiato. Ma questa idea è ormai lontana dalla realtà. Oltre il 90% degli stock ittici del Mediterraneo, valutati dai ricercatori della Commissione Europea, è in regime di sovra-sfruttamento e la maggior parte del pesce in bella mostra sui banconi dei negozi e nei menù dei ristoratori è importato perlopiù dall’Oceano Atlantico e dai Paesi in via di sviluppo.
A “Slow Fish” (Genova,18-21 maggio 2017), l’evento internazionale biennale dedicato al pesce e alle risorse del mare, organizzato da Slow Food e Regione Liguria, in collaborazione con il MiPAAF, nel corso della Conferenza “Da dove viene il pesce che metti in tavola?”, il WWF ha presentato il Rapporto “Gusti locali, mercati globali – Le risorse ittiche e il Mediterraneo” che chiarisce le interdipendenze tra la domanda europea, i flussi di mercato globali e le implicazioni sociali che questi comportano nelle comunità dei Paesi in via di sviluppo.
Le nazioni europee dell’area Mediterranea (Croazia, Francia, Grecia, Italia, Slovenia, Spagna e Portogallo) sono fra i maggiori consumatori di prodotti ittici. Nel 2014, la spesa degli Stati euro-mediterranei si aggirava intorno a 34, 57 miliardi di euro, circa il 63% del totale UE. Oltre la metà di tale spesa appartiene a Spagna, Italia e Francia, anche se la popolazione di queste tre Paesi costituisce solo un terzo della popolazione totale UE.
In altre parole, nella regione il consumo medio annuale pro capite ammonta a 33.4kg, a paragone di quello medio UE di 22.9 kg e di quello medio mondiale di 19.2 kg. In Portogallo, la cifra cresce fino a 56.8 kg, oltre un chilo di pesce a persona ogni settimana e la Spagna è seconda con 42.4 kg.
Le nazioni dell’area Euro Mediterranea importano il 36% di tutte le risorse ittiche importate dai Paesi fuori dall’UE e sono responsabili del 42% degli scambi fra gli Stati membri. Per rendere l’idea delle dimensioni di questo mercato, le nazioni dell’area euro-mediterranea consumano annualmente quasi 7.5 milioni di tonnellate di risorse ittiche, di cui solo 2.75 milioni di tonnellate provengono da fonti interne. Ciò comporta la necessità di reperire altrove una grande quantità di risorse ittiche: quasi 5 milioni di tonnellate ogni anno.
Molte importazioni provengono dal Nord Africa, dove il commercio ha impatti socio-economici e ambientali diretti: nel 2014, le nazioni dell’area euro-mediterranea hanno importato circa 1.8 milioni di tonnellate dai Paesi in via di sviluppo della regione (Marocco, Turchia, Mauritania, Tunisia, Egitto, Algeria, Libia), oltre a circa 335.000 tonnellate di risorse ittiche pescate dietro licenza nelle acque nazionali di questi Paesi. Obiettivo dei pescatori locali sono le specie che possiedono un alto valore di vendita sui mercati dell’area Euro Mediterranea: per esempio, la sussistenza di intere comunità nordafricane è affidata agli amanti dei polpi.
Tuttavia, questo flusso non è a senso unico: anche i Paesi dell’area euro-mediterranea esportano, seppure in minima quantità, risorse ittiche in queste nazioni – quasi tutte le esportazioni consistono in prodotti lavorati o inscatolati, venduti a prezzi relativamente bassi. Infatti, una quantità significativa delle risorse ittiche delle esportazioni dall’area euro-mediterranea non è destinata direttamente al consumo umano: per esempio, la farina di pesce di acciughe e di altri pesci foraggio viene impiegata prevalentemente per l’acquacoltura, mentre quasi tutto lo sgombro surgelato esportato dall’area euro-mediterranea in Mauritania viene utilizzato come esca dai pescherecci a palangaro industriali, che pescano le specie destinate ai mercati internazionali.
Nel Mediterraneo, gli amanti del pesce occupano un ruolo chiave nel mercato mondiale e le loro consuetudini d’acquisto si ripercuotono a livello globale. Per questo motivo, risulta estremamente importante che i consumatori comprendano le conseguenze delle loro scelte.
Negli ultimi 50 anni, i metodi industriali, gli scarsi controlli, le attività di pesca illegali, non dichiarate o non regolamentate e i fattori ambientali hanno avuto un peso sempre maggiore nella diminuzione degli stock ittici. Inoltre, fino alla metà degli anni ’90 le catture sbarcate sono aumentate di anno in anno, fino a raggiungere un picco di oltre 1 milione di tonnellate nel 1994. Poi, fino al 2013, la quantità totale di catture sbarcate è andata diminuendo fino a 787.000 tonnellate; tuttavia ciò non è avvenuto per una maggiore consapevolezza delle persone, ma semplicemente perché erano diminuiti gli stock ittici disponibili. È la stessa storia di molti oceani del mondo, il che indica la necessità di affrontare a livello globale il crescente tentativo di soddisfare le esigenze dei consumatori.
La diminuzione degli stock ittici disponibili produce il classico circolo vizioso. I pescatori devono guadagnare per vivere; di conseguenza, aumentano la loro attività (reti più grandi, più tempo in mare, ecc.) diretta a quegli stock ittici in diminuzione che, invece, necessiterebbero di tempo per riprendersi, rendendo così tale ripresa sempre più difficile. Una delle tendenze più comuni, quando uno stock ittico diminuisce, consiste nel pescare i pesci più giovani, che vengono quindi pescati prima che abbiano il tempo di riprodursi, con ovvie conseguenze sulla capacità di rigenerazione dello stock stesso. Se non verranno intraprese azioni serie per proteggere gli stock ittici, il Mediterraneo potrebbe non riprendersi mai – e lo stesso vale per gli altri mari del mondo.
È necessario, quindi, proteggere ciò che ancora sopravvive e operare per un futuro sostenibile. Si tratta di una questione culturale. Consumatori informati contribuiscono attivamente all’ottenimento di risultati migliori. Una reale conoscenza di ciò che si mangia, dei metodi di pesca, della sua provenienza e del suo impatto fanno sì che i fattori sociali e ambientali influenzino maggiormente le scelte d’acquisto.
Una migliore comprensione della sostenibilità e delle realtà dietro al mercato dell’area euro-mediterranea potrebbe aumentare il sostegno alle corrette specie di pesce locale, mentre la promozione di un’attività responsabile di acquacoltura contribuirebbe ad alleviare la pressione sugli altri stock ittici, consentendo ai consumatori di supportare le corrette attività di pesca nei Paesi in via di sviluppo. In ogni caso, la tracciabilità risulta di primaria importanza: la comprensione inizia dalla conoscenza e attualmente c’è un estremo bisogno di entrambe.
Già da ora, secondo il WWF, possono essere intraprese alcune semplici azioni per iniziare a invertire il fatto:
– pescare in modo sostenibile, proteggendo il novellame, impiegando misure efficaci nella lotta alle sempre maggiori minacce derivanti dalle attività di pesca illegali e garantendo la tracciabilità;
– assaggiare la diversità, incoraggiando i consumatori ad andare oltre le loro abitudini e degustando le specie locali che vengono pescate di meno, ma che possono costituire un’alternativa deliziosa, o pesce locale allevato con un’acquacoltura sostenibile;
– fare scelte consapevoli, supportando i prodotti regionali e i tradizionali pescatori locali;
– creare nuovi mercati, intraprendendo la vendita diretta dal pescatore locale al ristorante delle vicinanze e facendo accordi di distribuzione con grossisti e commercianti locali, nonché altre opportunità correlate all’attività primaria (turismo ad essa legato, l’osservazione della fauna selvatica, tradizioni gastronomiche, acquacoltura).
Il WWF ha realizzato una “Guida al consumo responsabile di pesce” che aiuta a fare la scelta giusta, sulla base dell’impatto che la pesca industriale ha sulle singole specie di pesce e sull’ambiente nel suo complesso. Tiene anche conto dell’efficacia o meno delle regolamentazioni vigenti, , con informazioni essenziali sui prodotti disponibili in 12 Paesi UE,. Classificati secondo i colori: blu (certificato o da produzione biologica), verde (da consumare liberamente), giallo (da consumare con attenzione) e rosso (da evitare).
Proprio nel giorno dell’inaugurazione di Slow Fish, la Commissione Politiche Agricole della Conferenza delle Regioni e Province autonome ha presentato la “Carta di Genova“, una sintesi delle principali azioni, anche di tipo normativo, che le Regioni ritengono indispensabili per il rilancio e la valorizzazione del settore della pesca, che sarà portata all’approvazione dei Presidenti in una riunione della Conferenza, per poi essere presentata al Governo.
Nella Carta sono previsti i seguenti punti:
– formazione degli operatori e dei tecnici per favorire il ricambio generazionale e l’innovazione;
– informazione attraverso una strategia nazionale di comunicazione sui prodotti agroalimentari e gastronomici italiani, che contribuiscono alla dieta mediterranea e alla cultura locale e nazionale;
– innovazione, con particolare riferimento alla sostenibilità, alle nuove specie da allevare o coltivare in acqua;
– qualificazione dei prodotti con la diffusione delle denominazioni d’origine, dei sistemi di qualità certificata, dell’acquacoltura biologica, della tracciabilità nelle filiere;
– educazione alimentare e promozione dell’agro-alimentare e della gastronomia italiana per incrementare il fatturato e il valore aggiunto dei prodotti ittici, sviluppare il turismo e le esportazioni;
– organizzazione delle filiere per garantire un maggior valore aggiunto ai produttori primari, promuovendo la vendita diretta, le filiere corte, la valorizzazione delle produzioni artigianali tradizionali, l’utilizzo delle nuove tecnologie, la trasparenza dei prezzi e dei rapporti contrattuali con i commercianti e gli industriali – con particolare attenzione alla tracciabilità dei prodotti e all’etichettatura – e lo sviluppo dell’associazionismo;
– sostenibilità della pesca diffusione dei piani di gestione locali o di scala più ampia per i grandi pelagici, la pianificazione dei periodi di fermo – e dell’acquacoltura – con particolare riferimento alla localizzazione degli impianti, all’alimentazione dei pesci allevati, alla gestione di reflui e rifiuti, al benessere degli animali, alla definizione di linee guida;
– diversificazione e multifunzionalità del settore attraverso lo sviluppo dell’ittiturismo e pescaturismo.