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Biodiversità in Africa: le guerre incidono sul declino delle specie

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Una ricerca pubblicata su Nature afferma che il conflitto armato è stato un fattore costante nel declino della biodiversità in Africa, anche se il numero è in ripresa, come avvenuto a Gorongosa National Park del Mozambico dove la guerra è durata oltre 25 anni. Tuttavia i ricercatori sottolineano che il recupero a lungo termine della biodiversità faunistica dipende dal coinvolgimento delle popolazioni locali nelle attività di prevenzione del bracconaggio e dal fornire loro mezzi di sussistenza.

di Fabio Bastianelli

Un giovane studente in Ecologia e biologia evolutiva alla Princeton University (New Jersey) nel 2012 ha accompagnato il suo professore al Gorongosa National Park in Mozambico dove si trovano i più grandi e iconici animali selvatici dell’Africa.

Era il momento in cui la fauna del Parco era tornata ad essere numerosa, dopo che oltre 25 anni di sanguinosi conflitti, prima per la guerra di indipendenza dal Portogallo e poi per a guerra civile tra opposte fazioni politiche che hanno provocato un milione di vittime umane, avevano anche ridotto del 90% la popolazione selvatica del Parco.

Mentre esploravano le savane di Gorongosa i due ricercatori si sono domandati se simili declini di biodiversità in Africa si fossero verificati anche in altre aree durante i numerosi conflitti che si sono succeduti nel corso del XX secolo e se avessero avuto la stessa capacità di ripristino che mostrava il Parco da loro visitato.

Dalle loro indagini è seguito lo Studio “Warfare and wildlife declines in Africa’s protected areas”, supportato dal Princeton Environmental Institute’s Grand Challenges program, nell’ambito del Progetto ”Ecosystem Spatial Pattern and Development Opportunities in African Rangelands” e pubblicato online su Nature il 10 gennaio 2018.

Dopo aver analizzato le conseguenze dei numerosi conflitti sulle aree protette africane Joshua Daskin, ora Donnelley Postdoctoral Fellow presso l’Università di Yale, e il Prof.  Robert Pringle hanno concluso che la guerra è stata un fattore costante nel decennale declino della biodiversità in Africa. Per le popolazioni che erano stabili nelle zone pacifiche è stato sufficiente un leggero aumento della frequenza dei conflitti per iniziare una parabola discendente. Tuttavia, secondo i due ricercatori, la diminuzione nelle aree di conflitto raramente sono crollate al punto da rendere impossibile il recupero.

I ricercatori hanno scoperto che oltre il 70% delle aree protette dell’Africa sono state toccate dalle guerre tra il 1946 e il 2010, periodo in cui il rovesciamento del dominio coloniale europeo è stato seguito in molti Paesi da violente lotte di potere post-coloniali. Elefanti, ippopotami, giraffe e altri grandi mammiferi perirono per mano di guerriglieri e cittadini affamati che cacciarono gli animali per sfamarsi o commerciare prodotti come l’avorio.

Ci auguriamo che i nostri dati e conclusioni contribuiscano allo sforzo di dare priorità a queste aree per l’attenzione e i finanziamenti da parte dei loro governi e delle ONG internazionali – ha affermato Daskin che è l’autore principale dello Studio – Stiamo presentando le prove che, nonostante il declino delle popolazioni di mammiferi nelle zone di guerra, per lo più non subiscono riduzioni irrimediabili. Con politiche e risorse adeguate, è possibile invertire il declino e ripristinare ecosistemi funzionali, anche in aree storicamente soggette a conflitti”.

Lo Studio era necessario per stabilire un’aspettativa scientifica generale sul modo in cui i conflitti colpiscono solitamente la biodiversità in Africa.
Per noi non era scontato in anticipo che i conflitti avrebbero avuto effetti negativi sulle popolazioni selvatiche – ha osservato Pringle – Diversi studi su luoghi diversi in tempi diversi hanno riscontrato effetti positivi e negativi del conflitto sulla biodiversità, ma l’effetto netto complessivo non era mai stato misurato. Precedenti ricerche hanno dimostrato che le popolazioni animali sono aumentate in regioni contese come la Zona demilitarizzata coreana (DMZ) e nello Zimbabwe durante la Guerra del Bush del 1964-1979 [ndr: fu così denominata la guerra civile in Rhodesia che oppose la fazione bianca di 250.000 individui dell’ex-colonia britannica ai 6 milioni di neri e che venne combattuta nella macchia con azioni di guerriglia e l’utilizzo di tute mimetiche]”.

Con poche eccezioni, i ricercatori hanno comunque osservato che i continui conflitti hanno provocato una tendenza al ribasso tra le popolazioni di grandi animali, quale nessun altro fattore valutato ha mostrato lo stesso effetto correlato. Non vi è stato alcun effetto statisticamente rilevabile sulle dinamiche faunistiche conseguente a attività estrattive, sviluppo urbano, corruzione, siccità, o intensità del conflitto, come quello misurato dal numero di vittime umane in battaglie.

Questo ci ha permesso di formulare alcune ipotesi plausibili sui meccanismi conseguenti – ha aggiunto Daskin – La maggior parte degli effetti del conflitto sulle popolazioni di fauna selvatica sembra essere dovuta a effetti socioeconomici a catena che degradano la capacità istituzionale per la conservazione della biodiversità, o alla capacità collettiva della società di stabilire le priorità e di pagare per essa“.

Daskin e Pringle hanno scoperto che il 71% delle aree protette dell’Africa ha subìto uno o più conflitti dal 1946 al 2010, e per un quarto di queste, le guerre si sono verificate per una media di nove o più anni. Diverse estese nazioni hanno avuto una media di 20 o più anni di conflitto nelle aree protette, tra cui Chad, Namibia e Sudan (prima di dividersi in Sudan e Sud Sudan nel 2011).

Per condurre la ricerca, Daskin ha attinto da quasi 500 fonti per trovare stime del numero di popolazione di una determinata in un intervallo di almeno due anni tra il 1946 e il 2010, confrontando tali stime con i conflitti che si sono sovrapposti in ciascuna delle aree protette dell’Africa durante l’intervallo di studio. Alla fine, i ricercatori hanno esaminato le tendenze di 253 popolazioni di animali che rappresentano 36 specie, dalle antilopi agli elefanti, in 126 aree protette in 19 Paesi.

Nessun altro aveva fatto lo sforzo di riunire i dati sui conflitti in questa serie di parchi e confrontarli con quelli della fauna selvatica – ha sottolineato Daskin – Questi dati erano tutti facilmente disponibili, ma non sempre molto accessibili”.

Il Parco di Gorongosa in Mozambico che ha ispirato lo studio, esemplifica l’impatto dei risultati, secondo gli autori. Dal 1977 al 1992, i soldati governativi, le milizie antigovernative e i rifugiati hanno combattuto alternativamente o hanno attraversato il Parco. Per anni dopo la guerra, i residenti sfollati e senza mezzi di sostentamento hanno cacciato la fauna selvatica. All’inizio degli anni 2000, la popolazione di elefanti si era crollata di oltre il 75%, mentre i censimenti aerei successivi hanno rilevato che il numero di bufali, ippopotami, gnu e zebre era sceso fino a due cifre. Ciònonostante, nessuna di queste popolazioni animali è completamente scomparsa.

Dal 2004, la fauna selvatica di Gorongosa è rimbalzata all’80% rispetto alla popolazione totale preesistente prima della guerra. Il personale del Parco, il Governo del Mozambico e il Gorongora Restoration Project hanno collaborato con le comunità vicine per nutrire le popolazioni animali rimanenti, bandendo la caccia illegale e creando opportunità educative e occupazionali per gli abitanti dei villaggi all’interno del parco.

I nostri risultati mostrano che il caso di Gorongosa potrebbe essere generale – ha affermato Pringle che fa parte del Consiglio di amministrazione del Progetto Gorongosa – Lì siamo andati assai vicini alla possibile estinzione dell’intera fauna, ma lì stiamo anche vedendo che possiamo rispristinare le popolazioni di animali selvatici e restaurare un ecosistema funzionale. Ciò suggerisce che gli altri siti che hanno avuto forti conflitti, analizzati nello studio, possano, almeno in linea di principio, essere recuperati“.

Infine, Pringle e Daskin hanno sottolineato che il recupero della fauna selvatica dipende, oltre che dall’implementazione di normative di conservazione e repressione, dal coinvolgimento delle popolazioni locali in attività di prevenzione del bracconaggio e dal fornire loro mezzi di sussistenza.
Mi piacerebbe vedere che le organizzazioni per la conservazione della fauna e quelle umanitarie collaborino nelle azioni di soccorso post-conflitto – ha concluso Pringle – La ripresa a lungo termine della biodiversità in Africa dipende dalla sicurezza alimentare e dalla speranza di vita delle popolazioni locali, che sono influenzate dalla salute degli ecosistemi, in una spirale di feed-back positivo”.

In copertina: La fotografia vincitrice del Wildlife Photographer of the Year 2017 di Brent Stirton. Bracconieri, probabilmente di comunità locali, entrati nella notte nella riserva di Hluhluwe Imfolozi (Sudafrica) hanno sparato al rinoceronte con un fucile dotato di silenziatore. Lavorando velocemente, hanno tolto i due corni e sono fuggiti. Le corna sono state poi vendute probabilmente a un intermediario e contrabbandate dal Sudafrica in Cina o in Vietnam.

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