Una ricerca compiuta dal Centro della Complessità e i Biosistemi (CC&B) dell’Università di Milano ha scoperto che nella prima fase di rigenerazione di organi e tessuti, capacità che fra i vertebrati è posseduta solo dagli anfibi, i geni attivati sono simili anche fra animali molto diversi. L’evoluzione della rigenerazione, perduta dai mammiferi, potrebbe rivelarsi utile per sviluppare terapie in grado di favorire la riparazione dei tessuti danneggiati e inibire questi geni, inoltre, potrebbe aiutare a contrastare le patologie dovute a un eccesso di fibrosi.
Tutti gli animali sono in grado di rigenerare una parte del corpo danneggiata, da quelli capaci di far ricrescere una parte del loro corpo fino a quelli che riescono a rigenerare il loro intero organismo, usando un set di geni simili fra di loro.
Questa è la sorprendente scoperta fatta da un gruppo di ricercatori del Centro della Complessità e i Biosistemi (CC&B) dell’Università di Milano, che ha analizzato l’attività genetica nella rigenerazione dei tessuti in molte specie, scoprendo che alcuni geni sono gli stessi, compresi quelli dei mammiferi che hanno perduto questa funzione, ad eccezione del fegato che ricresce fino a tornare alle sue dimensioni originali, anche se non alla forma originale.
Alcuni organismi possono far ricrescere il loro intero corpo partendo da un solo frammento, come alcuni invertebrati. La capacità rigenerativa può anche variare in base al ciclo vitale e con l’età dell’animale. Fra i vertebrati, solo gli anfibi sono in grado di ricostruire organi e tessuti anatomicamente completi e funzionali.
“Ci siamo concentrati sui geni coinvolti nella rigenerazione in diversi animali – ha spiegato Maria Rita Fumagalli, ricercatrice post-dottorato al CC&B e principale autrice dello studio Regeneration in distantly related species: common strategies and pathways, pubblicato online l’11 gennaio 2018 su Systems Biology and Applications (gruppo Nature) – per cercare di capire come mai i mammiferi hanno perso la capacità di far ricrescere arti amputati”.
I ricercatori hanno selezionato 3 organismi modello, noti per le loro elevate capacità rigenerative: l’idra (Hydra magnipapillata); la planaria (Schmidtea mediterranea); il cetriolo di mare (Apostichopus japonicus).
Dopo averli danneggiati, i ricercatori hanno poi analizzato il loro genoma in momenti diversi del processo di rigenerazione, per vedere quali geni si attivavano e in quale fase specifica. I risultati ottenuti sono poi stati confrontati con quelli ricavati da studi precedenti sul fegato di topo.
Hanno così scoperto che fra i geni attivati nella prima fase della rigenerazione ce ne sono alcuni che sono simili anche fra animali molto diversi. Ciò suggerisce che tutti gli organismi, mammiferi inclusi, potrebbero aver conservato, nel corso dell’evoluzione, una parte primordiale di questo processo. Nella fase più tardiva della rigenerazione, i geni coinvolti sono invece specifici dell’organismo e del tipo di tessuto in fase di riparazione.
I ricercatori del CC&B hanno anche studiato i geni coinvolti nella risposta infiammatoria che non è solo un meccanismo di difesa contro microrganismi esterni, ma gioca anche un ruolo cruciale nella ricostruzione di un tessuto danneggiato. Quel che hanno scoperto è che nelle cellule del sistema immunitario di idre, planarie e cetrioli di mare, all’inizio della risposta infiammatoria si attivano geni molto simili a quelli dei macrofagi e dei neutrofili che intervengono in caso di infezione nei topi. Ciò significa che, nei mammiferi, la perdita della capacità rigenerativa potrebbe essere stata compensata da una complessa reazione immunitaria che entra in gioco durante la riparazione dei tessuti danneggiati.
Nel complesso, questo studio ha consentito di svelare la presenza di un set di geni – fondamentali per dare inizio alla rigenerazione e quindi cruciali per la sopravvivenza – che sono rimasti conservati nel corso dell’evoluzione, in animali anche molto diversi fra di loro.
“La scoperta di questa firma genetica condivisa ci consente di capire meglio l’evoluzione della rigenerazione e potrebbe rivelarsi molto utile per lo sviluppo di future terapie rigenerative – ha commentato Caterina La Porta, professoressa di patologia generale al Dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’Università di Milano e coordinatrice di questa ricerca – Inibire questi geni potrebbe inoltre aiutare a contrastare le patologie dovute a un eccesso di fibrosi”.
In copertina: due immagini di un tritone a confronto dopo 40 giorni dall’amputazione di un arto (Fonte: Science)