Secondo una ricerca che ha preso in esame 570 studi sul ciclo di vita di 40 prodotti alimentari per valutarne l’impronta ambientale, consumare meno carne e latticini e comunicare ai consumatori l’impatto dei prodotti è il modo più importante per ridurre l’enorme pressione della produzione alimentare sul Pianeta.
Uno Studio (metanalisi) pubblicato sul numero del 1° giugno 2018 di Science e condotto da ricercatori dell’Università di Oxford e dell’Istituto svizzero di ricerca agricola Agroscope, che hanno preso in esame 570 studi sul ciclo di vita di 40 prodotti alimentari per valutarne l’impatto ambientale in termini di emissioni di gas serra, uso di suolo, consumo di acqua, acidificazione ed eutrofizzazione degli oceani, ha constatato che l’impronta esercitata varia notevolmente tra i vari prodotti e, a seconda del ciclo di produzione, tra gli stessi prodotti.
I ricercatori hanno creato il database più completo sull’impatto ambientale di circa 4.000 aziende agricole e di 1.600 trasformatori di prodotto, fornitori di imballaggi e rivenditori di 123 Paesi, che ha permesso loro di valutare in che modo le diverse pratiche di produzione e le diverse aree geografiche determinano impatti ambientali diversi per i 40 principali alimenti analizzati.
“Due prodotti che in negozio sembrano simili possono avere impatti molti diversi sul Pianeta – ha affermato Joseph Poore del Dipartimento di Zoologia della Scuola di Geografia e Ambiente dell’Università di Oxford e principale autore della ricerca “Reducing food’s environmental impacts trough producers and consumers” – Quando facciamo delle scelte su cosa mangiare non ce ne rendiamo conto, anche perché questa variabilità non si riflette adeguatamente nelle strategie e nelle politiche volte a ridurre l’impatto dell’agricoltura”.
Per esempio, i produttori di carne bovina ad alto impatto ambientale per 100 gr. di proteine creano l’equivalente di 105 Kg. di CO2 e utilizzano 370 m2 di terreno, valori da 12 e 50 volte superiori a quelli dei produttori di carne bovina a basso impatto. E la produzione di carne bovina a basso impatto consuma comunque 36 volte più suolo e produce 6 volte più emissioni di quella dei piselli o di altre proteine vegetali, che a loro volta emettono solo 0,3 kg. di CO2eq. (compresi i processi di lavorazione, imballaggio e trasporto), utilizzando solo 1 m2 di terreno per produrre la stessa quantità di proteine.
Così, l’acquacoltura che si presume abbia emissioni relativamente basse, può emettere più metano e creare più gas serra rispetto alle mucche per chilogrammo di peso vivo. Ancora, un litro di birra può generare 3 volte più emissioni e utilizzare 4 volte più terra rispetta ad un’altra. Questa variazione degli impatti è stata osservata in tutti e 5 gli indicatori valutati, tra cui l’uso di acqua, l’eutrofizzazione e l’acidificazione.
“La produzione alimentare crea enormi oneri ambientali, ma questi non sono una conseguenza necessaria dei nostri bisogni, dal momento che possono essere ridotti in modo significativo, modificando il modo in cui produciamo e quel che consumiamo – ha proseguito Poore – Una delle sfide principali è di trovare soluzioni efficaci per milioni di diversi produttori agricoli: un rivelarsi inadeguato o creare effetti negativi per un altro. Questo è un settore a cui si chiede di fornire soluzioni diverse a milioni di produttori diversi”.
Gran parte degli impatti vengono creati da un numero limitato di produttori: in media il 25% contribuisce al 53% dell’impatto ambientale di ciascun prodotto. Nel caso della carne bovina, solo il 15% della produzione genera 1,3 miliardi di tonnellate di CO2 e utilizza 950 milioni di ettari di terreno. Questa variazione e tendenza evidenzia le potenzialità per ridurre gli impatti e migliorare la produttività del sistema alimentare.
Per porre rimedio a questa situazione, secondo i ricercatori bisogna agire su produttori e consumatori.
Per i primi si sottolinea la necessità di far uso delle nuove tecnologie, quali i dispositivi mobile e i droni (l’agricoltura di precisione) che offrono informazioni puntuali sulle effettive esigenze colturali e sulle caratteristiche biochimiche e fisiche del suolo.
Tuttavia, l’azione sui produttori per ridurre i propri impatti è di gran lunga inferiore rispetto al ruolo che può essere assunto dal consumatore, perché anche nel caso di prodotti di origine animale a minore impatto, lo stesso è di gran lunga superiore rispetto a quello degli equivalenti vegetali. Ad esempio, un litro di latte vaccino a basso impatto utilizza comunque quasi due volte più terra e genera quasi il doppio delle emissioni di un litro di latte di soia di un produttore medio.
Diete povere di prodotti animali, quindi, offrono maggiori benefici ambientali rispetto all’acquisto di carne o latticini sostenibili. In particolare, le diete a base vegetale riducono le emissioni alimentari fino al 73% a seconda di dove si vive. Per quanto possa sembrare incredibile, i ricercatori sostengono che il fabbisogno di terreno agricolo globale si ridurrebbe di circa 3,1 miliardi di ettari (pari al 76%): “togliendo pressione alle foreste tropicali del mondo e restituendo terreno alla natura“, ha sottolineato Poore.
Il summary per i decisori politici del Rapporto sul degrado del suolo e ripristino del territorio, presentato alla VI Assemblea plenaria dell’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) tenutasi in Colombia (Medellín, 17-24 marzo 2018), sottolinea che il degrado della superficie terrestre e il rischio di un’ulteriore espansione agricola in habitat originari sta spingendo l’umanità verso la 6° estinzione di massa, e per arrestare la perdita di biodiversità bisogna, tra l’altro, passare a diete meno impattanti, come quelle con più alimenti a base vegetale e meno proteine animali da fonti non sostenibili .
I ricercatori indicano pure che con una dieta meno ricca di proteine animali, possiamo conseguire ulteriori vantaggi ambientali. Riducendo il consumo di prodotti animali ad alto impatto ambientale del 50%, si eviterebbe del 73% le emissioni di gas serra del settore alimentare.Inoltre, la riduzione del 20% di consumo di prodotti voluttuari ad alto impatto ambientale (oli, alcol, zucchero e stimolanti) taglierebbe del 43% le emissioni di gas serra di questi prodotti.
Tutto questo darebbe luogo ad un effetto moltiplicatore, per cui piccoli cambiamenti comportamentali hanno grandi conseguenze per l’ambiente. Tuttavia, questo scenario richiede che i produttori comunichino l’impatto ambientale al consumatore (non solo del prodotto), che potrebbe concretizzarsi attraverso etichette ambientali, azioni sulle tasse e sui sussidi.
“Abbiamo bisogno di trovare modi per apportare un po’ di cambiamenti, così che anche produttori e consumatori agiscano a favore dell’ambiente – ha concluso Poore – Le etichette ambientali e gli incentivi finanziari sosterrebbero un consumo più sostenibile, creando al contempo un cerchio positivo: gli agricoltori dovrebbero monitorare i loro impatti, incoraggiare un migliore processo decisionale e comunicare i loro impatti ai fornitori, incoraggiando un approvvigionamento migliore”.