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Pompei: mappato il DNA delle vittime dell’eruzione del 79 d.C.

Grazie alla disponibilità del Parco Archeologico di Pompei, ricercatori dell’Università di “Tor Vergata” (Roma) e dell’Università del Salento (Lecce) hanno analizzato con un approccio multidisciplinare, bioarcheologico e paleogenetico, i resti scheletrici di due individui rinvenuti nel 1933 nella Casa del Fabbro, uno dei numerosi edifici eccezionalmente ben conservati situati nel sito archeologico della città portuale di età imperiale romana che fu completamente distrutta e sepolta dalle ceneri dell’eruzione del Vesuvio.

È stato sequenziato con successo il genoma umano di un individuo morto a Pompei, in occasione dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Prima erano stati sequenziati solo brevi tratti di DNA mitocondriale da resti umani e animali pompeiani.

La notizia è riportata nello Studio Bioarchaeological and palaeogenomic portrait of two Pompeians that died during the eruption of Vesuvius in 79 AD”, pubblicato il 26 maggio 2022 su Nature Scientific Reports, che ha visto la collaborazione tra il Centro di Antropologia Molecolare per lo studio del DNA antico dell’Università di Roma “Tor Vergata”,  il Laboratorio di Antropologia Fisica dell’Università del Salento, il Laboratory of Molecular Psychiatry dell’Università della California di Irvine e il Lundbeck Foundation GeoGenetics Centre dell’Università di Copenhagen.

Grazie alla disponibilità del Parco Archeologico di Pompei uno dei 54 siti del patrimonio mondiale dell’UNESCO in Italia, sono stati analizzati con un approccio multidisciplinare, bioarcheologico e paleogenetico, i resti scheletrici di due individui rinvenuti nel 1933 nella Casa del Fabbro, uno dei numerosi edifici eccezionalmente ben conservati situati nel sito archeologico della città portuale di età imperiale romana che fu completamente distrutta e sepolta dalle ceneri dell’eruzione del Vesuvio, come è ben noto.

Per anni si è cercato di analizzare geneticamente i reperti antropologici provenienti da questa città, ma la loro analisi molecolare ha rappresentato una grande sfida. Oggi, grazie agli enormi passi in avanti fatti negli ultimi decenni dalla paleogenomica, la disciplina che combina lo studio delle popolazioni antiche con la genomica – in pratica mette insieme la medicina e la paleoantropologia – è stato possibile recuperare il DNA antico da uno dei due campioni umani analizzati.

La forma, la struttura e la lunghezza degli scheletri indicavano che uno era un maschio di età compresa tra i 35 e i 40 anni al momento della sua morte, mentre l’altra serie di resti appartenevano a una donna di età superiore ai 50 anni. Sebbene gli autori siano stati in grado di estrarre e sequenziare il DNA antico da entrambi gli individui, sono stati in grado di sequenziare l’intero genoma solo dai resti del maschio a causa delle lacune nelle sequenze ottenute dai resti della femmina. Gli autori ipotizzano che il recupero con successo del DNA antico dai resti dell’individuo maschio sia stato possibile dal fatto che i materiali piroclastici rilasciati durante l’eruzione abbiano fornito protezione da fattori ambientali che degradano il DNA, come l’ossigeno atmosferico. 

Di sicuro è un locale, un individuo dell’età imperiale romana – ha dichiarato a BBC Inside Science Gabriele Scorrano del Centro di Antropologia Molecolare per gli Studi sul DNA Antico, Dipartimento di Biologia, Università di Roma “Tor Vergata”e Genetista alla Lundbeck  Foundation GeoGenetics Centre dell’Università di Copenaghen, nonché principale autore dello Studio – Per quanto riguarda Pompei, credo che sia davvero interessante sapere com’era questa popolazione perché Pompei è come un’immagine di quella popolazione  nel 79 dopo Cristo. Possiamo ottenere anche molte altre informazioni, come la stratificazione sociale dei rapporti di parentela tra i diversi individui che si trovano in case diverse, e così via”. 

Secondo gli autori dello Studio, la comparazione del profilo genetico DNA dell’individuo maschio con il DNA ottenuto da 1.030 antichi e 471 individui eurasiatici occidentali moderni suggeriscono che il DNA del pompeiano condivide la maggior parte delle somiglianze con i coevi dell’Italia centrale e di altri individui vissuti in Italia durante l’età imperiale romana. Tuttavia, le analisi del DNA mitocondriale e del cromosoma Y dell’individuo maschio hanno individuato anche gruppi di geni che si trovano comunemente in Sardegna, ma non tra gli altri individui vissuti in Italia durante l’età imperiale romana. Ciò suggerisce che potrebbero esserci stati alti livelli di diversità genetica in tutta la penisola italiana durante questo periodo.

Le analisi paleopatologiche hanno identificato la presenza di spondilite tubercolare (morbo di Pott) in uno dei due individui. Questa patologia era endemica in epoca romana imperiale, come riportato nelle fonti antiche di Celso, Galeno e Celio Aureliano, e Areteo di Cappadocia, ma è raro ritrovarla in contesti archeologici perché soltanto in piccole percentuali manifesta alterazioni scheletriche.

Dalla loro posizione originale, sembra che non stessero scappando – ha dichiarato la co-autrice dello Studio, Serena Viva dell’Università del Salento – Dipartimento Patrimonio Culturale – La risposta al motivo per cui non stavano fuggendo potrebbe risiedere nelle loro condizioni di salute. Lavorare sulle vittime di un disastro naturale è un’emozione difficile da descrivere. Queste persone sono testimoni silenziosi di uno degli eventi storici più noti al mondo”.

In conclusione, i risultati di questo studio forniscono dati molto preziosi su individui morti durante l’eruzione del 79 d.C., che ampliano le informazioni biologiche, paleopatologiche e genetiche, confermando e dimostrando la possibilità di analizzare DNA dai resti umani provenienti da Pompei.

In copertina: La Casa del Fabbro (Notizie degli Scavi di Antichità, 1934)

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