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L’industria della moda al bivio del “vero materialismo”

industria moda

In occasione della Settimana della moda di Milano (20-25 settembre 2017), Greenpeace ha organizzato presso Frigoriferi Milanesi un dibattito con rappresentanti di piccole e medie imprese europee che stanno intraprendendo un percorso verso la moda slow, un modello che non comporta compromessi di natura etica, sociale o ambientale e si allontana dal fast fashion e dal consumo eccessivo di capi d’abbigliamento che hanno un impatto ambientale non sostenibile, presentando il nuovo rapporto “Fashion at the crossroads” che raccoglie quasi 400 esempi di alternative al modello corrente di industria della moda, che consuma troppe risorse.
L’economia circolare è sulla bocca di tutti, ma dietro questa bella etichetta si nasconde il sogno impossibile dell’industria che la circolarità possa risolvere il problema di un consumo eccessivo di risorse – ha affermato Chiara Campione, Senior Corporate Strategist di Greenpeace Italia – In ogni caso dobbiamo consumare meno perché il riciclo al 100 per cento è una chimera!“.

Sin dal 2011, con la campagna Detox, Greenpeace ha chiesto ai grandi marchi del settore di eliminare le sostanze chimiche pericolose dalle loro filiere produttive, alla quale finora hanno aderito 80 marchi internazionali – tra i quali più di 50 realtà tessili italiane – che rappresentano il 15% della produzione tessile globale in termini di fatturato. Tuttavia, secondo Greenpeace, anche questa importante svolta potrebbe rivelarsi non completamente efficace dal punto vista ambientale se i grandi brand non riconosceranno che il consumo eccessivo di prodotti tessili è il problema ambientale più grande da affrontare. Inoltre, la promozione del mito della circolarità, secondo cui gli indumenti possono essere riciclati all’infinito, sarebbe addirittura controproducente perché potrebbe incentivare un consumo privo di sensi di colpa.

Secondo Greenpeace, il “Pulse Report on the State of the Fashion Industry” presentato al recente Copenaghen Fashion Summit e del quale ci siamo occupati in un precedente articolo, descrive un futuro in cui l’industria della moda continuerà il suo attuale percorso di crescita, con un incremento delle quote di mercato dei grandi marchi. Ciò porterà a raddoppiare l’uso di poliestere entro il 2030 poiché ritenuto riciclabile e sostenibile. “Ma anche se fosse possibile riciclare tutti i capi in poliestere e quindi chiudere il ciclo di vita dei prodotti tessili che ne sono costituiti – si sottolinea nel Rapporto di Greenpeace – siamo sicuri che sarebbe una svolta positiva per l’ambiente? E qual è il potenziale del riciclo delle fibre naturali?“.

Il Rapporto”Fashion at the cross roads” descrive una realtà differente. Nei Paesi in cui il consumismo eccessivo è predominante, la stragrande maggioranza degli abiti a fine vita viene smaltito insieme ai rifiuti domestici finendo nelle discariche o negli inceneritori. È questo, ad esempio, il destino per più dell’80% degli indumenti gettati via nell’UE. Ad aggravare lo scenario descritto concorre lo scarso sviluppo delle tecnologie che consentano di riciclare il 100% delle fibre sia naturali che sintetiche. Ad oggi, gran parte del riciclo di poliestere nell’industria della moda non ha niente a che vedere con i rifiuti tessili, ma riguarda le bottiglie di plastica in PET (Polietilene Teref-alato), sollevando così l’industria alimentare e delle bevande da ogni responsabilità ambientale derivante dall’utilizzo della plastica monouso. Il riciclo, da parte di alcuni marchi, dei rifiuti in plastica raccolti in mare ha ricadute positive soprattutto sull’immagine, ma non sull’enorme problema dell’inquinamento da plastica negli oceani. Così facendo, l’industria tessile evita di affrontare i veri problemi ambientali derivanti dall’utilizzo di poliestere e, nello specifico, la sua origine da fonti fossili e il suo contributo alla contaminazione da microfibre nei mari di tutto il mondo e addirittura nell’acqua dei rubinetti, secondo una ricerca appena pubblicata.

Nel Rapporto vengono identificate e valutate iniziative già in atto da arte di aziende di abbigliamento e delle calzature volte sia a rallentare il flusso di materiali utilizzati nella produzione di capi di abbigliamento che a chiudere il ciclo dei prodotti a fine vita. Le diverse strategie messe n atto nel settore dell’abbigliamento, delle scarpe e degli accessori, sono state classificate in 5 categorie principali, garantendo un approccio olistico sull’intero ciclo di vita dei prodotti tessili, anziché affrontare singole parti del sistema moda in maniera isolata.
– Miglioramento del design del prodotto per allungarne il ciclo di vita. Allungare il ciclo di vita degli abiti e promuoverne un uso prolungato nel tempo degli abiti sono gli interventi più importanti per rallentare il flusso di materiali e ridurre così il ricorso all’acquisto di nuovi prodotti. Alcune strategie possono essere già facilmente attuate ricorrendo a tecniche e pratiche esistenti come le garanzie a lungo termine, il miglioramento della qualità dei prodotti affinché siano più duraturi e riparabili e la creazione di servizi di riparazione ad hoc per i consumatori. I marchi di moda più piccoli sono all’avanguardia da questo punto di vista e già adottano soluzioni che prolungano la durata fisica degli indumenti, ma anche quella emotiva, entrambe importanti per favorire un uso prolungato nel tempo.
– Modelli di business alternativi. Sono già in atto dei cambiamenti nei modelli di business tradizionali che, pur concentrandosi nel limitare e ridurre i problemi ambientali, concorrono a promuovere soluzioni innovative riguardo le modalità con cui gli indumenti vengono prodotti, venduti, condivisi, riparati e riutilizzati. Questi modelli alternativi facilitano il recupero e la tracciabilità di materiali e la raccolta dei rifiuti tessili, sfidano il concetto di proprietà, ridefiniscono le politiche di marketing e coinvolgono i clienti in una nuova storia in cui c’è anche spazio per la diversità creativa e culturale. Adottati prevalentemente da aziende medio-piccole, vengono seriamente valutati per l’adozione nel lungo periodo anche da alcune grandi marche.
– Miglioramento del design per ridurre l’impatto ambientale. L’impiego di materiali qualitativamente migliori nella produzione, il miglioramento dell’efficienza energetica nei processi produttivi, l’adozione di soluzioni tecniche che garantiscono la biodegradabilità dei prodotti a fine vita, il miglioramento del rendimento nel tempo dei materiali riciclati e la riduzione della dipendenza da materie prime derivanti da fonti fossili, sono alcune strategie positive per definire misure efficaci a lungo termine.
– Programmi di ritiro degli abiti usati ne negozi e tecnologie di riciclo. Tali programmi sono importanti, ma necessitano di essere sviluppati e coordinati strategicamente, anziché essere impostati come iniziative una tantum, tenendo in considerazione le misure già esistenti e le attività organizzate da anni nel settore no profit. Risorse e finanziamenti necessari per permettere di recuperare e riciclare gli abiti a fine vita non dovrebbero basarsi solo sulle disponibilità economiche delle singole aziende, ma essere obbligatori per legge. Ad esempio, la legge sulla Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), come il modello EcoTLC creato in Francia, definiscono gli obiettivi nazionali di raccolta, premiano i miglioramenti nella progettazione e design, forniscono dati sulla tracciabilità e garantiscono risorse economiche da destinare alla ricerca. Sebbene l’attenzione dell’industria della moda sia focalizzata sui materiali sintetici, le tecnologie di riciclo degli indumenti post-consumo, realizzati con fibre naturali e/o sintetiche, sono oggi in una fase iniziale di sviluppo spesso tralasciando problematiche ambientali significative come quello delle microplastiche e dei pesticidi. Inoltre, esse dovrebbero considerare le linee guida sulla classificazione dei rifiuti e i principi della campagna Detox per sviluppare strumenti per garantire la tracciabilità e il monitoraggio dell’intera filiera produttiva.
– Miglioramento del design per riutilizzare e riciclare i prodotti tessili. Considerando l’attuale e crescente attenzione dei marchi leader della moda sul “modello circolare”, è sorprendente che ci siano poche iniziative per migliorare il design dei prodotti e favorirne il loro riutilizzo e riciclo a fine vita. Ciò conferma che un approccio olistico, diretta conseguenza dell’adozione di provvedimenti adeguati sull’EPR, non è stato ancora adottato. Ad esempio affidarsi ad iniziative basate sull’abbondanza di bottiglie in PET e ad altri rifiuti non tessili va a discapito di modelli realmente circolari che partono e finiscono con prodotti tessili. Un approccio olistico è necessario anche per assicurare che i potenziali conflitti tra garantire la longevità degli indumenti e la necessità di riciclarli vengano affrontati.

Per Greenpeace, l’industria della moda è ad un bivio e deve scegliere quale strada percorrere. Può proseguire sul modello attuale basato su pratiche di spreco e modelli usa e getta che continueranno
ad aumentare l’impatto ambientale del settore sul nostro Pianeta e sul nostro tessuto sociale o, in alternativa, invertire la rotta diventando creativa e innovativa attraverso l’adozione di modelli di business rivoluzionari che consentano di rispettare i limiti di risorse del nostro Pianeta. Una svolta di questo tipo abbandonerebbe il materialismo usa-e-getta a favore del “vero materialismo“, conclude il Rapporto, citando un passo dell’ultimo libro di Kate Fletcher, ricercatrice, scrittrice e attivista di progettazione, il cui lavoro negli ultimi 15 anni ha modellato il settore della moda e della sostenibilità ed insegnante di Sustainability, Design, Fashion all’Università delle Arti di Londra: “un passaggio da un’idea di società del consumo in cui i materiali contano poco a una vera società materialistica, in cui i materiali, e l’ambiente di provenienza, sono preziosi” (Craft of Use: Post-Growth Fashion, 2016, Routledge).

Eleonora Giovannini

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