Circular economy Sostenibilità

Copenaghen Fashion Summit: per un mondo oltre la prossima stagione

Copenaghen Fashion Summit

Presentato al Copenaghen Fashion Summit il Rapporto che analizza le prestazioni sociali e ambientali di uno dei settori industriali e commerciali più sporchi e da cui emerge che la maggioranza dei marchi della moda non ha ancora capito le opportunità economiche correlate insite nella parte finale della catena di valore e che è necessario passare da un approccio “lineare” a uno “circolare” per preservare le risorse in modo da soddisfare le future richieste.

In occasione del Copenaghen Fashion Summit, l’evento che riunisce nella capitale danese i decision maker del fashion system mondiale per parlare di sostenibilità nel settore della moda e che quest’anno si è concentrato sul tema della “circolarità” con lo slogan “Committment to Change” (Impegno per il cambiamento), la Global Fashion Agenda (GFA), un nuovo forum che cerca di coinvolgere tutti i soggetti del settore in un reale cambiamento, in collaborazione con The Boston Consulting Group, ha presentato “Pulse of the fashion industry“, una approfondita analisi delle prestazioni ambientali e sociali del settore.

È un dato di fatto: l’industria della moda è una delle più “sporche” e insostenibili a livello mondiale. Le analisi compiute dalla Boston Consulting Group indicano che solo per il 2015 il settore ha prodotto 92 milioni di tonnellate di rifiuti, ha consumato 79 miliardi di m3 di acqua ed ha emesso in atmosfera 1.715 milioni di tonnellate di CO2, oltre ad essere è afflitto da problemi sociali ed etici – dalla disuguaglianza di genere alla pericolosità dell’esposizione dei lavoratori a rifiuti tossici e sostanze chimiche.

Inoltre, viene messo in evidenza che negli ultimi 15 anni si è passati da un consumo pro capite di fibre tessili di circa 8 kg nel 2000 ai 13 kg del 2015 (+68%).

Tenendo conto dell’ultimo Rapporto previsionale dell’ONU sulla Popolazione Mondiale, pubblicato qualche giorno fa che stima al 2030 un aumento di 1 miliardo di individui rispetto agli attuali 7,6 miliardi, per stare al passo con questi incrementi la produzione globale di vestiti dovrà aumentare del 63%, ovvero dai 62 milioni di tonnellate al giorno a 102 milioni di tonnellate. Questo enorme espansione continuerà a tenere sotto pressione l’industria della moda che dovrà passare da un modello economico “lineare” a quello “circolare”, per far fronte alle limitate risorse che potrebbero minacciare la crescita stessa del settore.

Se è vero che negli ultimi 10 anni, l’industria mondiale della moda è stata un motore per lo sviluppo globale e ha fatto progressi sulla sostenibilità, per l’aumentata consapevolezza della necessità di ottimizzare le pratiche produttive e commerciali, l’attuale ritmo di cambiamento non è adeguato, come denuncia il Rapporto della Global Fashion Agenda.

Per comprendere le problematiche più significative e critiche per il nostro settore, ma anche per tenere traccia dei miglioramenti o delle sconfitte abbiamo commissionato questo Rapporto – ha dichiarato Eva Kruse, Ceo di GFA e del Copenhagen Fashion Summit – L’invito all’azione che lanciamo all’industria della moda è una chiara opportunità per agire in modo diverso, perseguendo profitto e crescita economica, ma anche investendo in innovazione per presevare risorse sottraendole allo smaltimento per destinarle al soddisfacimento di future richieste“.

L’analisi è stata compiuta sull’Higg Index, un indice messo a punto dalla Sustainable Apparel Coalition (SAC), un’Associazione che riunisce i più grandi player dell’industria dell’abbigliamento e delle calzature del mondo, per valutare le perfomance ambientali dei prodotti del settore moda, ma che è divenuto anche uno strumento per comunicare la sostenibilità del prodotto sia al consumatore che agli addetti ai lavori.

Ne emerge un punteggio totale assegnato al settore di 32 su 100, anche se si deve osservare che è la media tra le 4 categorie in cui sono state inserite le aziende, con una forbice di 52 punti tra il gruppo delle migliori (costituito principalmente da grandi aziende di moda e abbigliamento sportivo) a cui è stato assegnato un 63/100 e l’11/100 ottenuto dal quartile inferiore, costituito dalle piccole imprese.

Sono 8 i temi chiave analizzati: Acqua, Energia, Sostanze chimiche, Rifiuti, Pratiche di lavoro, salute e sicurezza, Impegno comune ed esterno, Etica.

In questo primo Rapporto sono stati assegnati punteggi solo alle questioni ambientali e sociali, rinviando ad uno successivo quelle etiche (benessere degli animali, perdita di biodiversità, corruzione, ecc.).

L’aspetto interessante che deriva dal Rapporto è la quantificazione in 160 miliardi annui i vantaggi per l’economia mondiale con i miglioramenti delle prestazioni ambientali e sociali del settore:

– Acqua: riduzione consumi – 32 miliardi di euro;

– Energia: riduzione delle emissioni – 67 miliardi di euro;

– Chimica: riduzione delle malattie professionale – 7 miliardi di euro;

– Rifiuti: riduzione della produzione – 4 miliardi di euro;

– Attività lavorative: aumento del numero di lavoratori che guadagnano il 120% del salario minimo – 5 miliardi di euro;

– Salute e sicurezza: riduzione del numero degli infortuni – 32 miliardi di euro;

– Impegno della comunità ed esterno: aumento della spesa della comunità – 14 miliardi di euro;

 Etica: non quantificato.

Se l’industria della fashion rimanesse sul suo attuale percorso, sottolinea il Rapporto, non solo non rientrerebbe nell’accesso ai 160 miliardi di euro all’anno in gioco, ma vedrebbe una riduzione dei margini degli utili aziendali (EBIT) entro il 2030 di oltre il 3%.

I limiti del Rapporto, riconosciuti dallo stesso Boston Consulting Group, deriva dal fatto che i dati sono soggettivi e non verificati da terze parti, perciò deve essere preso come punto di partenza per una discussione sulla sostenibilità del settore piuttosto che come soluzione finale.

Non casualmente la presentazione è avvenuta durante una Tavola rotonda dal titolo “Per un mondo al di là della prossima stagione“, alla quale ha partecipato Ellen MacArthur, Fondatrice della MacArthur Foundation, che dopo il successo della “New Plastics Economics“, ha avviato “Circular Fibres Initiative” per “avviare cambiamenti concreti nel settore, creando una visione ambiziosa basata su dati reali per un nuovo sistema globale di tessile, sulla base dei principi dell’economia circolare, con benefici economici , ambientali e sociali a lungo termine“.

La sfida principale è quella di cambiare l’intera catena di approvvigionamento, da una linea di “take-make-dispose” (prendere-fare-dismettere) ad una circolare di “raccolta dei tessuti ed indumenti usati, separare chimicamente e meccanicamente le fibre, creare nuovi tessuti con le fibre riciclate e fare nuovi capi di abbigliamento“.

Articoli simili

Lascia un commento

* Utilizzando questo modulo accetti la memorizzazione e la gestione dei tuoi dati da questo sito web.