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G20 sostiene le esplorazioni dei combustibili fossili

G20 sostiene le esplorazioni dei combustibili fossili

Nonostante le affermazioni di principio, i Paesi del G20 continuano a sovvenzionare l’esplorazione dei giacimenti di combustibili fossili più di quanto non facciano le grandi compagnie.
Un nuovo Rapporto denuncia il ruolo di salvataggio che i Governi esercitano sul settore messo in crisi dalla discesa dei prezzi, anche se si tratta di cattivo investimento.
Per l’Italia devono essere conteggiati anche gli investimenti esplorativi per il 2013 di 2,2 miliardi di dollari effettuati da ENI, controllata al 30% dal Governo.

We reaffirm our commitment to rationalise and phase out inefficient fossil fuel subsidies that encourage wasteful consumption, recognising the need to support the poor”.
Così sta scritto nell’ultimo comma del punto 18 del Comunicato finale rilasciato al termine del G20 di Brisbane (Australia) del 15-16 novembre 2014.
Peccato che un impegno ad eliminare gradualmente i sussidi ai combustibili fossili fosse già stato preso dai Paesi del G20 a Londra nel 2009 e ribadito nel 2013 a San Pietroburgo, senza che nel frattempo si siano intravisti reali effetti.

La denuncia che alle prese di posizione di principio espresse da leader mondiali non seguono azioni conseguenti viene dal Rapporto diffuso alla vigilia del Summit da Overseas Development Institutethink-tank britannico indipendente sullo sviluppo globale e gli affari internazionali, e Oil Change International, Istituto statunitense di ricerca, comunicazione e organizzazione per informare sui veri costi dei combustibili fossili e agevolare la transizione verso l’energia pulita, ha rivelato che i Paesi che fanno parte del G20 spendono complessivamente 88 miliardi l’anno (2013) per sostenere la ricerca di nuove riserve di petrolio, gas e carbone, che senza gli aiuti pubblici sarebbero operazioni antieconomiche, specie dopo la caduta dei prezzi del petrolio, mentre le 20 più grandi compagnie petrolifere ne hanno spesi soltanto 37 miliardi.

Non si tratta di sussidi al consumo, come quelli riportati nel recente World Energy Outlook dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), che testimoniano comunque la sproporzione tra sussidi ai combustibili fossili ed incentivi concessi alle fonti rinnovabili, ma di sovvenzioni pubbliche per individuare e accedere a nuovi giacimenti e per rendere sfruttabili le riserve già accertate.

Il titolo del Rapporto “The fossil fuel bailout: G20 subsides for oil, gas and coal exploration” indica che senza il sostegno pubblico il settore dei combustibili fossili sarebbe in bancarotta (bailout) e gli viene concessa della liquidità per far fronte ai debiti contratti con le banche, peraltro gravemente esposte per i finanziamenti concessi per lo sfruttamento dei giacimenti già conosciuti.
 I sussidi vengono dettagliatamente suddivisi nel Rapporto in 3 tipologie:
– gli investimenti di imprese di proprietà statale per circa 49 miliardi di dollari l’anno;
– i sussidi statali erogati direttamente o sgravi fiscali per circa 23 miliardi;
– erogazioni da parte di banche o istituzioni finanziarie pubbliche per 16 miliardi.

Il totale (88 miliardi di dollari) dei sussidi per l’esplorazione sono quasi il doppio di quelli che l’IEA ha stimato essere necessari per fornire elettricità e riscaldamento a tutte le persone che oggi non vi hanno accesso entro il 2030, secondo l’iniziativa ONU Sustainable Energy for All.

Secondo il Rapporto, tali sussidi sottraggono finanziamenti alle fonti energetiche a basse emissioni di carbonio, come l’energia eolica e solare, che in molti casi sono più efficienti a trainare la crescita: 1 dollaro di sovvenzioni alle rinnovabili attrae 2,5 dollari di investimenti privati contro 1,3 dollari conseguenti a quello dato ai combustibili fossili, oltre a generare maggiori posti di lavoro.

Escludendo l’Arabia Saudita che dalle tasse sull’estrazione di petrolio trae il 90% delle sue entrate, secondo gli autori del Rapporto gli altri Paesi del G20 sarebbero in grado di rinunciare agli introiti da parte delle società che operano nell’esplorazione e nella produzione di petrolio e gas naturale che ammontano a 554 miliardi di dollari nel 2012 (incluse royalties, profitti statali sul petrolio, imposte sul reddito e bonus), il 5% in media delle loro entrate totali annue.

Arabia Saudita è in testa alla classifica dei Paesi maggiori finanziatori all’esplorazione dei combustibili fossili (17 miliardi di dollari), a seguire Brasile (12 miliardi), Cina (11,5 miliardi), USA (6,5 miliardi di cui 1,4 miliardi per l’esplorazione all’estero), Giappone (6 miliardi di dollari, di cui ben 5,3 miliardi per l’esplorazione all’estero).

In Italia all’esplorazione vengono destinati 407 milioni di dollari, secondo le stime di Legambiente, come riporta il Rapporto, e altri 246 milioni sono investimenti in aziende oil&gas.
Ma in un Box dedicato il Rapporto mette in risalto che il Governo italiano possiede il 30% (26% con la CDP e il 4% nelle mani del Tesoro) di ENI che nel 2013 ha speso ben 2,2 miliardi di dollari in esplorazione in acque profonde e ultra-profonde in Angola, Brasile, Repubblica del Congo, Gabon, Nigeria e Golfo del Messico, ed è coinvolto in altri grandi progetti di esplorazione in Australia, Indonesia, Kenya, Mozambico, Myanmar, Vietnam e nel Mar Nero alla frontiera tra Russia e Ucraina. Inoltre, nel 2013 ENI ha iniziato l’esplorazione di petrolio e gas nell’Artico, nella sezione Russa e Norvegese del Mar di Barents.

Per mantenere l’aumento della temperatura globale a 2 °C entro la fine del secolo, come prevede l’Accordo di Copenhagen approvato nel 2009 tra i Paesi dell’UNFCCC, secondo recenti studi scientifici bisogna lasciare nel sottosuolo i due terzi delle attuali riserve di combustibili fossili!

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