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Consumate petrolio… altrimenti i Paesi arabi, e non solo, falliscono!

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L’insolito invito a tenere alta la domanda del petrolio viene dall’articolo “Oil Prices and the Global Economy: It’s Complicated“, postato il 24 marzo 2016 sul blog del FMI a firma degli economisti Maurice ObstfeldGian Maria Milesi-Ferretti e Rabah Arezki.

I prezzi del petrolio sono stati persistentemente bassi per oltre un anno e mezzo, ma come documenterà il World Economic Outlook di aprile, la ‘boccata di ossigeno’ ampiamente prevista per l’economia globale deve ancora concretizzarsi – si legge – Noi sosteniamo che, paradossalmente, i benefici a livello globale derivanti dai bassi prezzi ci saranno solo dopo che le quotazioni avranno recuperato un po’ e le economie avanzate avranno fatto maggiori progressi che superino il contesto attuale di bassi tassi di interesse“.

Da giugno 2014 i prezzi del petrolio sono scesi di circa il 65% in termini di dollari statunitensi (circa 70 dollari), ma allo stesso tempo la crescita ha progressivamente rallentato in molti Paesi. Anche tenendo conto dell’apprezzamento del 20% del dollaro nel periodo considerato (in termini nominali effettivi), avvertono gli economisti, il declino dei prezzi del petrolio in valuta locale è stato in media superiore a 60 dollari.

I prezzi bassi del petrolio paradossalmente non hanno avuto effetti benefici sulle economie dei paesi avanzati. Anzi, nell’ultimo periodo, a forti cali nelle quotazioni del greggio si sono avuti altrettanto accentuate discese dei listini azionari e rallentamenti nella crescita delle economie avanzate.

Questo risultato ha lasciato perplessi molti osservatori, compresi noi del Fondo, che avevano creduto che le riduzioni del prezzo del petrolio avrebbero avuto effetti positivi per l’economia mondiale“. Negli ultimi 6 mesi infatti i mercati azionari mondiali hanno avuto la tendenza a scendere quando i prezzi del petrolio calavano, non quello che ci si aspetterebbe. Da agosto 2015 la correlazione tra i prezzi azionari e petrolio non solo è stata positiva, ma è raddoppiata rispetto al precedente periodo iniziato ad agosto 2014”.

Secondo gli autori, presupposto chiave dietro questa convinzione è una differenza specifica di comportamento al risparmio tra gli importatori di petrolio e esportatori di petrolio: i consumatori delle regioni importatori di petrolio, come l’Europa, hanno un maggior margine di propensione al consumo del reddito rispetto a quelli esportatori, come l’Arabia Saudita.

I mercati azionari globali non hanno creduto alla possibilità che le economie avanzate avrebbero tratto beneficio dal tonfo del petrolio, grazie all’effetto controbilanciante tra esportazioni ed importazioni, poiché rispetto ai cicli precedenti, questa volta i prezzi del greggio in ribasso coincidono con un periodo di lenta crescita economica.
“Rispetto ai precedenti cicli dei prezzi, il calo dei prezzi del petrolio questa volta ha coinciso con un periodo di lenta crescita economica, così lento che le principali banche centrali hanno poca o nessuna capacità di abbassare ulteriormente i tassi di interesse di politica monetaria per sostenere la crescita e combattere le pressioni deflazionistiche”.

Rimane da risolvere un puzzle: quand’è che si potranno vedere gli effetti positivi dei prezzi più bassi del petrolio?
Noi sosteniamo che, paradossalmente, i benefici a livello globale derivanti dai bassi prezzi ci saranno solo dopo che le quotazioni avranno recuperato un po’ e le economie avanzate avranno fatto maggiori progressi che superino l’attuale contesto di bassi tassi di interesse”.

Ma c’è di più. Il persistere dei bassi prezzi del petrolio, complica maledettamente la conduzione delle politiche monetarie, con il rischio di ulteriori incursioni da aspettative di inflazione ancora non stabile.

Per di più, l’attuale situazione dei prezzi del petrolio così bassi potrebbe innescare una serie di turbative tra cui il fallimento di fondi sovrani e societari, che possono riflettersi sui mercati finanziari, già nervosi.
La possibilità di tale negativa retroazione rende il sostegno della domanda da parte della comunità globale, insieme ad una serie di riforme strutturali e finanziarie specifiche per ciascun Paese, sempre più urgente”.

Già il mese scorso un Rapporto del Comitato scientifico consultivo della Commissione UE (European Systemic Risk Board) aveva allertato sui rischi sistemici del passaggio ad una rapida transizione economica low carbon, sulla base dei livelli di esposizione degli istituti finanziari alle attività ad alta intensità di carbonio.

Di contro, l’ultimo Rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che indica in 12,6 milioni i decessi annuali attribuibili all’inquinamento ambientale, invita a ridurre l’inquinamento atmosferico dovuto alle emissioni, specie nel settore dei trasporti.

Il recente Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici per mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei +2 °C, al fine di evitare il rischio di catastrofi e di eventi estremi, impone investimenti massicci nelle fonti energetiche rinnovabili.

Non è giunto il momento che le grandi Istituzioni Internazionali e la Governance dicano chiaramente (come ha fatto Papa Francesco) che un modello economico è ormai giunto alla fine?

Non vorremmo che tale dichiarazione avvenisse dopo aver messo al sicuro banche e mercati finanziari, disinvestendo “molto lentamente” dalle fonti fossili, perché a quel punto i più deboli e i meno responsabili potrebbero essere già morti per inondazioni da eventi estremi o malattie dovute ad inquinamento. Senza contare dello stato del Pianeta che sarebbe consegnato alle future generazioni.

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