Barack Obama sarà presente alla Conferenza in Alaska che vede riuniti su invito del Dipartimento di Stato i Paesi del Consiglio Artico, sia come membri che quali osservatori, assieme a scienziati e rappresentanti delle comunità locali, al fine di discutere le azioni individuali e collettive per affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici nella regione, con un occhio alla COP21 di fine anno a Parigi, ma anche alle opportunità che si determineranno nella rete commerciale e dei trasporti, e nello sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi che il mondo accademico e quello della ricerca, viceversa, invitano a lasciare dove sono se si vogliono evitare i rischi di superare un disastroso + 2 °C di riscaldamento globale.
In nessun luogo il riscaldamento globale è più evidente che nella regione artica, dove nel corso degli ultimi quattro decenni la temperatura è aumentata del doppio rispetto all’incremento globale, con effetti che stanno avendo, e avranno ancor più in futuro, profonde implicazioni locali, regionali e globali.
Al fine di valutare le ripercussioni ambientali della riduzione del ghiaccio marino, del permafrost e dei ghiacciai dell’Artico, con l’obiettivo di difenderne i vulnerabili ecosistemi e proteggere i mezzi di sussistenza delle popolazioni che vi vivono, 8 Paesi (Norvegia, Russia, Canada, Stati Uniti, Danimarca, Finlandia, Islanda e Svezia) che si affacciano o hanno giurisdizione su quei territori nel 1991 diedero vita all’Arctic Environmental Protection Strategy (AEPS) che si trasformò nel 1996 nel Consiglio Artico (Arctic Council), un Forum per una cooperazione intergovernativa ovvero un organismo consultivo al fine di garantire alla regione uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.
Per i primi anni le sue riunioni sono passate quasi inosservate, ma dopo che le previsioni dei modelli climatici indicano che lo scioglimento dei ghiacci renderà accessibile allo sfruttamento le riserve minerarie, petrolifere e di gas, imprigionate prima sotto la calotta, e aprirà a rotte prima impensabili, le sessioni dei suoi lavori acquistano sempre maggior importanza e sono seguite dai media con maggior attenzione.
Stante una situazione in evoluzione che determinerà opportunità nei trasporti, commerci e anche risvolti di tipo militare, nel 2013 gli 8 Paesi membri a pieno titolo hanno aperto il consesso ad altri 6 Paesi, quali membri osservatori permanenti in virtù del loro ruolo politico e economico, tra i quali l’Italia, anche in ragione del fatto che il nostro Governo mantiene nelle isole Svalbard la Base artica “Dirigibile Italia” e la Climate Change Tower “Amundsen-Nobile”.
Altri Paesi europei, compresa, l’Unione europea sono semplicemente “osservatori“.
Dal 24 aprile 2015, gli Stati Uniti hanno assunto la Presidenza di turno biennale che viene assolta dal Segretario di Stato americano John F. Kerry, cercando di cogliere l’opportunità per inserire nella agenda gli aspetti legati all’impatto dei cambiamenti climatici nella regione, come annunciato, peraltro, nel Programma dal titolo: “Un solo Artico: opportunità, sfide e responsabilità condivise“, dove “Affrontare l’impatto dei cambiamenti climatici” è uno dei 3 temi fondamentali dell’azione programmatica statunitense, insieme a Miglioramento delle condizioni economiche e di vita nelle comunità artiche e Oceano Artico, Sicurezza e Governance.
Seppur evento che non fa parte di quelli in calendario del Consiglio Artico, né direttamente correlato allo svolgimento della COP21, la Conferenza “GLACIER: Global Leadership in the Arctic: Cooperation, Innovation, Engagement and Resilience” (acronimo decisamente efficace visto che glacier in inglese significa ghiacciaio) che si sta svolgendo (30-31 agosto 2015) ad Anchorage (Alaska), organizzata dal Dipartimento di Stato statunitense in stretto contatto con la Casa Bianca (sarà presente lo stesso Presidente Barack Obama), sarà destinata ad avere influenza sia sulle decisioni dell’uno che sulle conclusioni dell’altra.
Alla Conferenza sono stati invitati i Ministri degli Esteri di tutte le Nazioni artiche e non artiche, facenti parte del Consiglio o dei Paesi “osservatori” permanenti e non esponenti governativi federali e dello Stato dell’Alaska, rappresentanti dei popoli indigeni dell’Artico, assieme ad esponenti del mondo scientifico.
Se l’obiettivo annunciato della Conferenza è di “Discutere l’azione individuale e collettiva per affrontare i cambiamenti climatici nell’Artico; aumentare la consapevolezza che gli impatti climatici nella regione sono un anticipo di quel che potrebbe accadere sull’intero Pianeta; individuare le soluzioni scientifiche e tecnologiche per rispondere a queste sfide; condividere le opportunità per preparare e rispondere ad altre questioni relative ai cambiamenti nell’Artico, tra cui la regolamentazione della pesca d’altura nella regione, la cooperazione per salvaguardare il benessere delle comunità locali“, non c’è alcun dubbio che la richiesta avanzata alle Nazioni Unite da parte della Russia il 3 agosto 2015 di poter sfruttare 1,2 milioni di Km2 (una superficie più grande di Francia e Germania insieme) di piattaforma artica che si estende dalle sue coste per oltre 650 chilometri, avrà un suo peso nell’affrontare le suddette questioni.
Secondo il sito norvegese BarentsObserver, nell’area rivendicata dalla Russia si stima che vi siano 594 giacimenti di petrolio e 159 di gas per un totale di 258 miliardi di tonnellate equivalenti di idrocarburi (circa il 60% delle riserve russe) oltre a 350 depositi auriferi e due grandi di nichel.
Già nel 2002 un’analoga richiesta era stata respinta perché la Commissione dell’ONU sui limiti della piattaforma continentale, prevista dall’Art. 76 – comma 8° della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (1982) che definisce i diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani, definendo linee guida che regolano le trattative, l’ambiente e la gestione delle risorse naturali, non aveva ritenuto sufficienti le prove addotte che ne legittimassero la validità, ma ora, secondo il Ministro degli Esteri russo, sono stati allegati nuovi studi a supporto del diritto di sfruttamento.
C’è da ritenere che questa nuova richiesta verrà messa quanto prima all’ordine del giorno dei lavori della Commissione, dal momento che confligge con quella avanzata nel dicembre scorso dalla Danimarca, di concerto con il Governo della Groenlandia, tesa ad allargare i diritti di sfruttamento su 900.0000 Km2 della piattaforma continentale nel Mar Glaciale Artico. Sarebbe la negoziazione tra i due Paesi a definire i rispettivi confini, dal momento che la Commissione è un organo scientifico consultivo e non ha alcun potere di dirimere le conflittualità tra i Paesi.
C’è da tener presente, inoltre, che ogni decisione dovrà tener conto delle altre eventuali richieste dei Paesi artici, e tra questi il Canada si appresterebbe a fare un passo simile nei prossimi mesi, di concerto con gli USA che non hanno ancora ratificato la Convenzione, ma che intende giocare un ruolo chiave nei negoziati.
Si chiarisce sempre più il motivo per cui il Worldwatch Institute ha ritenuto di dover inserire l’Artico tra le 8 minacce nascoste alla sostenibilità nel suo State of the World 2015.