Un motivo per rendere le città in grado di adattarsi al global warming e mitigarne gli impatti.
Il tempio dedicato a Vishnu di Angkor Wat, fatto costruire dal sovrano Suryavarman II all’inizio del XII secolo e dichiarato dall’UNESCO patrimonio e simbolo della Cambogia, tanto da apparire, unico caso, nella bandiera nazionale fin dalla sua creazione in Stato (1863), si colloca al centro di un’area che ha visto sorgere Angkor, la città più “diffusa” dell’età preindustriale e capitale dell’Impero Khmer che nel momento di maggior splendore includeva, oltre la Cambogia, Laos e Vietnam.
Mentre il tempio, probabilmente mausoleo del sovrano stesso, durante la storia moderna e contemporanea era stato oggetto di frequentazioni, prima come monastero buddista, più tardi come meta turistica tra le più ambite e visitata ogni anno da milioni di individui, della città di Angkor non c’era traccia perché gli altri templi, “cappelle di famiglia”, erano stati riassorbiti dalla giungla dalla cui vegetazione erano stati nascosti fino all’arrivo degli esploratori francesi che li rinvennero e che furono riportati alla luce dagli archeologi con una serie ininterrotta di bonifiche e restauri che iniziarono alla fine dell’Ottocento e che proseguono tuttora. Ovviamente il sito archeologico fa riferimento ai “templi” in quanto tutte le abitazioni, compreso il palazzo reale, erano costruite in legno, e furono abbandonate dopo un’incursione dei Thai nel 1431.
Per molto tempo il collasso della “città idraulica” di Angkor fu avvolto nel mistero, ma studi sempre più sofisticati e tecnologicamente avanzati sono ora in grado di darci risposte sempre più attendibili.
Sulla prestigiosa Rivista “Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America” è stato pubblicato di recente uno Studio che apporta un nuovo contributo alla teoria che siano stati problemi ambientali a determinare la caduta dell’Impero Khmer e l’abbandono da parte della popolazione della città di Angkor (Brendan M. Buckley et al. “Climate as a contributing factor in demise of Angkor, Cambodia”, PNAS, 13 aprile 2010, vol. 107, No 15, pagg. 6748-6752).
Secondo i ricercatori del Lamont-Doherty Earth Observatory of Columbia University, coadiuvati da altri colleghi australiani, giapponesi, vietnamiti e thailandesi, ferme restando le altre concause che hanno determinato la crisi dell’Impero Khmer e il definitivo abbandono della città, sarebbero da ricercarsi anche dai cambiamenti climatici che si verificarono nella regione tra il XIV e XV secolo.
Studiando la struttura degli anelli di un esemplare di 979 anni di Fokienia hodginsii, albero della famiglia delle Cupressaceae incluso nella IUNC Red List of Threatened Species, presente nel parco nazionale vietnamita di Bidoup Nui Ba e distante 700 km. da Angkor, gli studiosi hanno ricostruito i livelli di umidità della regione tra il 1250 e il 2008.
In particolare, dai nuclei estratti dalla pianta senza danneggiarla, si è potuto individuare le prove di due gravi periodi di siccità: tra il 1362 e il 1392, il primo; dal 1415 al 1440, un po’ più breve ma più grave, il secondo.
“I periodi di siccità furono di tale severità e durata, che avrebbero determinato un impatto notevole nell’approvvigionamento idrico e sulla produzione agricola, mentre anni di maggior intensità dei monsoni estivi avrebbero danneggiato le capacità di controllo delle infrastrutture idrauliche”.
Nello Studio si evidenzia, inoltre che i periodi siccitosi si sono alternati a stagioni di piogge monsoniche straordinariamente intense che avrebbero danneggiato il sistema idraulico, non più in grado di smaltire la quantità di acque meteoriche, stante gli intasamenti riscontrati in molti canali che erano stati, comunque, deviati o ricostruiti durante i periodi aridi.
I ricercatori hanno appurato che gli anni più aridi si sono verificati in sequenza nel 1402 e 1403. Per ritrovare un altro anno altrettanto arido si deve arrivare al 1888, che ha coinciso con il fenomeno ciclico del riscaldamento delle masse tropicali dell’Oceano Pacifico, denominato El Niño. Correlando con gli strumenti moderni i cicli conosciuti di El Niño, i ricercatori hanno documentato come il riscaldamento ciclico delle masse d’acqua oceaniche del Pacifico provoca intense piogge in certe aree e siccità in altre. Gli autori suggeriscono, quindi, che El Niño, permanendo probabilmente più a lungo dei cicli decennali consueti sul Pacifico, potrebbe aver giocato un ruolo importante nella riduzione delle precipitazioni monsoniche in questa regione, determinando una siccità prolungata rispetto ai periodi precedenti.
Alcuni climatologi sostengono che l’attuale riscaldamento globale potrebbe in futuro modificare questi cicli, incrementando le possibilità di alternanza di periodi siccitosi ad altri con alluvioni distruttive, incidendo sulla vita di miliardi di individui.
“Sia la società umana che il sistema climatico terrestre sono sistemi complessi capaci di comportamenti imprevisti – ha osservato Kevin Anchukaitis, un altro autore della ricerca – Attraverso una prospettiva di lungo termine offerta dai dati climatici ed archeologici, noi possiamo cominciare ad individuare e comprendere i molteplici modi in cui possono interagire. Le prove relative ai monsoni in Asia dovrebbero ricordarci che le civiltà complesse sono ancora vulnerabili alla variabilità e al cambiamento del clima”.
Nel momento di maggior splendore, Angkor avrebbe ospitato 500.000- 1.000.000 abitanti e si sarebbe estesa su una superficie di 1.000 km2, attorno al tempio principale di Angkor Wat, ma un precedente Studio, Cipresso di Fujian (Fokienia hodginsii) 12 condotto nell’ambito del “Greater Angkor Project” a cui lavorano 40 ricercatori e che è finanziato dall’Università di Sidney, dalla Scuola Francese per l’Estremo Oriente e dal Governo della Cambogia, ritrovando altri 94 “templi” e 74 dovranno essere verificati, fa ritenere che la sua estensione sia stata ben più ampia.
Incrociando i dati di carte redatte a mano, rilievi sul terreno, fotografie aeree e immagini messe a disposizione dalla NASA, è stato possibile ricostruire una mappa dettagliata della città che avrebbe occupato un’area che dai margini della depressione fluvio-lacustre del Tonle Sap arrivava fino alle colline del Kulun.
Il suo sviluppo fu possibile grazie ad una tecnologia di gestione e conservazione delle acque che si reggeva su un sistema di canali lunghi fino a 20 km, di dighe e serbatoi (baray), che aveva permesso ai suoi abitanti di coltivar riso per tutto l’anno. “La ricerca mostra che le conoscenze di ingegneria idraulica erano sofisticate e complesse, ma basatte su grandi disboscamenti che hanno inciso in modo significativo sull’ambiente locale – affermava Damian Evans, coordinatore dello Studio – L’erosione del suolo provocò accumuli di sedimentazione che dovevano essere continuamente rimossi, anche se al momento non c’è una prova decisiva di quel che può essere accaduto” (D. Evans et al. “A comprehensive Archaeological Map of the World’s Largest pre-Industrial Settlement Complex of Angkor, Cambodia”, PNAS, 4 september 2007, Vol. 104, No 36, pagg. 14277- 14282). Come abbiamo visto, ora si è aggiunto un nuovo tassello nel mosaico delle vere cause di questa misteriosa crisi, ma l’intuizione dell’archeologo Roland Fletcher, condirettore del “Greater Angkor Project” secondo cui gli abitanti “si crearono tanti problemi di ordine ambientale, che non furono poi in grado di risolvere” costituisce ancora il fulcro delle ricerche su Angkor. Se volessimo tradurre in termini attuali la questione, si potrebbe dire che i Khmer non riuscirono ad approntare azioni di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. Attratto più dal “funzionamento” dell’hydraulic city e da come e dove vivevano i suoi abitanti, piuttosto che dalla bellezza architettonica dei suoi templi, Fletcher condusse sul posto campagne di ricerca i cui risultati e le riflessioni che ne scaturirono espresse nel libro “The Limits of Settlement Growth” (1996) che, mutuando il titolo di un altro testo famoso (“I limiti dello Sviluppo” del MIT), si è inserito nel dibattito urbanistico della fine del secolo scorso, in relazione al cosiddetto sprawl.
Passando in rassegna gli studi dei vari insediamenti urbani della storia e, soprattutto, facendo esplicito riferimento all’esperienza acquisita sul campo ad Angkor, Fletcher mette in risalto come l’ “ambiente costruito” costituisca un limite per lo sviluppo urbano a lungo termine. Divenendo costoso spostare insediamenti o demolirli e ricostruirli da zero, il progetto originario e gli edifici e le forme di comunicazione approntati, possono compromettere l’ulteriore sviluppo e forse, secondo l’autore, porre limiti ai cambiamenti politici e sociali.
Era un monito, purtroppo non avvertito, ai teorizzatori della “città globale” che, nel tentativo di proporre un modello urbano capace di sostituire la “città fossile”, dissipatrice di risorse naturali ed energetiche, ritengono che il “progetto” sia indipendente dal “luogo”.