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Riutilizzo di beni durevoli: anello centrale dell’economia circolare

riutilizzo beni durevoli

Tra i rifiuti prodotti in Italia c’è un piccolo tesoro che non viene adeguatamente valorizzato. Si tratta del riutilizzo potenziale dei beni durevoli che potrebbero trovare nuova vita se esistesse il modo di reimmetterli in circolazione.

Lo evidenzia il Rapporto 2018 sul Riutilizzo presentato il 20 marzo 2018 a Roma e realizzato da Occhio del Riciclone, un’organizzazione che promuove una gestione dei rifiuti totalmente ispirata alla sostenibilità ambientale, in collaborazione con Utilitalia, la Federazione delle imprese italiane dei servizi idrici, energetici e ambientali.

Il sottotitolo del Rapporto “Anello centrale dell’economia circolare” richiama esplicitamente il Pacchetto sull’Economia Circolare adottato dalla Commissione UE nel 2015, il cui Piano d’azione è stato denominato “L’anello mancante”.

In questi giorni si sta concludendo il trilogo (Commissione UE-Parlamento europeo-Consiglio) per l’adozione definitiva della revisione delle Direttive rifiuti, dopo l’accordo raggiunto nello scorso dicembre, in base al quale gli Stati membri dovrebbero adottare specifiche misure anche per quanto riguarda la preparazione per il riutilizzo, come ad esempio l’incentivazione alla costituzione di reti di riparazione e preparazione per il riutilizzo, o la facilitazione, laddove possibile, dell’interfaccia con gli operatori e le infrastrutture della gestione dei rifiuti urbani. Nella gerarchia della gestione dei rifiuti, il riuso è ai vertici e viene subito dopo la prevenzione.

I beni durevoli riutilizzabili (considerando solo quelli in buono stato e facilmente collocabili sul mercato) presenti nel flusso dei rifiuti urbani superano le 600.000 tonnellate annue, circa il 2% della produzione nazionale di rifiuti. Si tratta di mobili, elettrodomestici, libri, giocattoli e oggettistica che, in mancanza di un quadro normativo capace di favorire la strutturazione di vere e proprie filiere, quasi mai vengono riutilizzati: il danno ammonta a circa 60 milioni di euro l’anno relativo ai costi di smaltimento, senza considerare il valore degli oggetti di seconda mano.

Molte sono le iniziative che possono essere messe in campo per valorizzare adeguatamente questo tesoro. Ad esempio raccolte dedicate e centri di riuso interni o adiacenti ai centri di raccolta in grado di intercettare i beni durevoli riutilizzabili. Ma al di là dei sistemi di intercettazione, sono necessari impianti di “preparazione per il riutilizzo” che funzionino su scala industriale: attraverso un’autorizzazione al trattamento, un impianto può ricevere rifiuti provenienti dai centri di raccolta comunali e dalle raccolte domiciliari degli ingombranti e reimmetterli in circolazione dopo igienizzazione, controllo ed eventuale riparazione.

La fattibilità di questi impianti è stata dimostrata dal Progetto PRISCA (Pilot project for scale re-use starting from bulky waste stream), finanziato dalla Commissione UE attraverso il programma Life Plus Ambiente che ha dimostrato la fattibilità di due Centri di Riuso, realizzati a Vicenza e a San Benedetto del Tronto, deputati ad avviare a riutilizzo i beni riusabili presenti nel flusso dei rifiuti solidi urbani e che, in assenza di una filiera organizzata, attualmente sono destinati perlopiù allo smaltimento.

Questa possibilità di strutturazione della filiera è però inibita dalla mancanza dei Decreti Ministeriali che dovrebbero mettere in chiaro le procedure semplificate per compiere questo tipo di trattamento. “In Italia già da alcuni anni si parla di integrare il settore del riutilizzo alle politiche ambientali, e i tempi sembrano essere maturi perché si arrivi a un punto di svolta a partire dal quale le filiere si articoleranno, struttureranno e regolarizzeranno – ha spiegato Pietro Luppi, Direttore del Centro di Ricerca “Occhio del Riciclone” – Bisogna però insistere sulla professionalizzazione e sulla pianificazione, nella coscienza che il riutilizzo non è un gioco ma un enorme opportunità per generare sviluppo locale e risultati ambientali”.

In Italia i negozi dell’usato conto terzi e il commercio ambulante si confermano come leader nella vendita dell’usato. Si contano circa 2.000-3.000 negozi in conto terzi distribuiti sull’intero territorio nazionale, una formula commerciale praticata soprattutto al Nord e al Centro, dove è presente circa un negozio ogni 31.000 abitanti, mentre al Sud se ne conta uno ogni 87.000. I mercatini che ospitano commercianti ambulanti sono invece almeno 550, senza contare quelli informali o abusivi: 337 al Nord, 152 al Centro e 61 al Sud. Il totale degli operatori ambulanti dell’usato è difficile da calcolare ma si presume si aggiri tra le 50.000 e le 80.000 unità.

L’iniziativa privata trova oggi grande diffusione nonostante siano scarse le sinergie con gli Enti Locali. Sono solo 9 le Regioni – Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Umbria, Abruzzo e Campania – che hanno incluso nella loro pianificazione ambientale l’avvio di Centri di Riuso da affiancare ai Centri di Raccolta dei Rifiuti Urbani, ma in questi anni tali esperienze non sono mai decollate. Eppure non mancano gli esempi positivi, come il Progetto “Cambia il finale” di Hera (la multiutility leader in Emilia-Romagna) che è riuscita a riutilizzare 530 tonnellate di beni durevoli in un anno a fronte di un bacino di circa 2 milioni di abitanti, coinvolgendo 25 Onlus e un centinaio di soggetti svantaggiati.

Le aziende di igiene urbana svolgono un ruolo cruciale nella transizione verso un’economia circolare – ha sottolineato Filippo Brandolini, vicepresidente Utilitalia – Sempre più spesso, infatti, non si limitano a gestire i rifiuti conferiti dai cittadini ma diventano promotrici di iniziative innovative che, come nel caso del riutilizzo, alimentano filiere al alto valore (umano, ambientale, economico e sociale) aggiunto. Per questo Utilitalia, da sempre in prima fila nella promozione di politiche di prevenzione dei rifiuti, dialoga apertamente con le amministrazioni e il mondo dell’usato per cercare insieme modelli, sinergie e forme e di collaborazione che sappiano promuovere un utilizzo efficiente e sostenibile delle risorse ambientali ed umane”.

Al momento, nel nostro Paese, le filiere degli indumenti usati sono senza alcun dubbio le più articolate e strutturate: nel 2016 sono state infatti raccolte 133.300 tonnellate di rifiuti tessili, il 65% delle quali è stato riutilizzato (il rimanente 35% è stato avviato a riciclo, recupero o smaltimento). Ma il potenziale di riutilizzo della frazione tessile in realtà è molto più elevato: in presenza di azioni capaci di comunicare la finalità solidale delle raccolte e la trasparenza delle filiere, il risultato potrebbe raddoppiare superando i 5 kg di raccolta ad abitante.

Chi dona abiti usati consegnandoli nei contenitori stradali lo fa con intenzioni solidali nell’84% dei casi – ha evidenziato Alessandro Strada di Humana People to People Italia, una ONG che sostiene progetti nel Sud del mondo e azioni sociali e di sensibilizzazione in Italia, e che effettua il servizio di raccolta degli abiti usati – Ciò dimostra come il cittadino chieda che le considerazioni di carattere sociale trovino spazio all’interno degli affidamenti del servizio di raccolta differenziata e recupero della frazione tessile”.

Eppure non mancano le criticità che spaziano dai reati ambientali all’infiltrazione mafiosa: gli operatori sani hanno sollevato il problema chiedendo strumenti di controllo più rigorosi e criteri di affidamento del servizio più attenti al funzionamento delle filiere. Utilitalia, Rete ONU e centro Nuovo Modello di Sviluppo hanno aperto un Tavolo di confronto con il settore per individuare linee guida finalizzate a prevenire tali criticità.

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