Il loro ritrovamento in nuovo habitat australiano, completamente diverso da quello dove avevano sempre vissuto, non lascia tranquilli i ricercatori che cercano di appurare le cause di questo allontanamento per attuare strategie di conservazione efficaci.
Tra le ipotesi da considerare l’aumento delle attività di trivellazioni off-shore e i cambiamenti climatici.
Serpenti marini di due specie incluse nel 2010 tra le “Critically Endangered” (fortemente a rischio di estinzione) nella Red List della IUNC (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) e in procinto di essere dichiarati estinti, non essendo più stata segnalata la loro presenza dal 2001, nonostante fossero state organizzate delle spedizioni mirate nell’area in cui vivevano, sono stati “riscoperti”.
Si tratta del serpente marino dal naso corto (Aipyrusus apraefrontalis) e del serpente marino dalle squame a foglia (Aipyrusus foliosquama), appartenenti all’Hydrophiiniae, gruppo di 60 specie di serpenti velenosi che nelle ere geologiche passate si sono si trasferiti, evolvendosi, dalla aree continentali dell’Australia alle aree marine costiere, soprattutto tra le formazioni coralline, dove trovano i pesci di cui si nutrono.
Le due specie avevano vissuto fino allora in una zona assai ridotta, compresa tra Ashmore Reef e Hibernia Reef nel Mar di Timor, nota per essere conosciuta come “la capitale dei serpenti di mare del pianeta” per il numero elevato di individui che vi abitavano, da cui erano misteriosamente scomparse.
Fin dall’inizio dall’inizio degli anni ’90 le loro popolazioni di serpenti marini dell’area avevano cominciato a declinare, tanto che la riduzione era stata del 90% rispetto a quelle presistenti nel 1970, fino a che tra il 1998 e il 2001 delle due specie in oggetto si erano perse le tracce.
L’anno scorso, Grant Griffin, un ranger del Department of Parks and Wildlife dell’Australia Occidentale, ha avvistato, in un tratto di mare aperto del Ningaloo Reef, una delle icone del biodiversità marina australiana, una coppia di serpente marino dal naso corto. Incredulo di quanto visto, poiché il rinvenimento era distante ben 1.700 km. più a sud dell’area da cui era scomparso il serpente dal naso corto, ha scattato una fotografia che ha inviato per l’identificazione a Blanche R. D’Anastasi del Centro di Eccellenza degli Studi sulla Barriera Corallina del Consiglio delle Ricerche d’Australia presso la James Cook University (Queensland), che non ha esitato a confermare, quanto supposto.
“Siamo rimasti stupefatti nel constatare che quella specie potenzialmente estinta era improvvisamente ricomparsa – ha affermato la ricercatrice – Ma quel che ci ha maggiormente meravigliato era il fatto che i due serpenti stavano in corteggiamento, suggerendo che trattavasi di una popolazione stabile”.
Non è stato difficile con una spedizione sul posto, rinvenire una decina di esemplari che testimoniavano l’esistenza di un nuovo habitat per la specie, completamente diverso da quello dove avevano sempre vissuto. Non solo. Nell’occasione è stata ritrovata una significativa popolazione del serpente dalle squame a scaglie, anche questa specie a forte rischio di estinzione che era misteriosamente scomparsa, anch’essa, dal Mar di Timor.
“Avevamo sempre creduto che questa specie di serpente marino vivesse solo sulle barriere coralline tropicali – ha proseguito la D’Anastasi – Trovarlo tra le praterie di fanerogame di Shark Bay [la prima area dell’Australia ad essere dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO] è stata una vera sorpresa”.
Nonostante la buona notizia della “riscoperta”, rimane il grave declino dei serpenti marini e la necessità di appurare le cause del loro allontanamento dall’area prediletta, come si sottolinea nello studio “New range and habitat records for threatened Australian sea snakes raise challenge for conservation“, in uscita sul numero di febbraio 2016 di Biological Conservation, la prestigiosa rivista internazionale leader nella disciplina della biologia della conservazione, di cui la D’Anastasi, è la principale autrice.
“Per riuscire a proteggerli, avremo bisogno di monitorare le loro popolazioni, nonché intraprendere attività di ricerca per meglio conoscere la loro biologia e le minacce che devono affrontare – ha sottolineato Vimoksalehi Lukoschek, anche lui come gli altri autori dello studio del Centro ARC Coral Reef Studies – Molti dei serpenti che sono stati oggetto di questo studio sono stati rinvenuti nelle reti a strascico per la pesca di gamberetti, indicando che queste specie sono vulnerabili alla pesca. Ma la scomparsa dei serpenti di mare da Ashmore Reef, non può essere attribuita alla pesca a strascico e rimane per certi versi inspiegabile. Chiaramente, abbiamo bisogno di identificare le principali minacce alla loro sopravvivenza al fine di attuare strategie di conservazione efficaci se abbiamo intenzione di proteggere queste popolazioni costiere di recente riscoperta“.
Dai serpenti di mare “ricomparsi” viene l’avvertimento che le attività umane potrebbero costituire una minaccia per queste specie il cui ruolo è importante per mantenere in buona salute la barriera corallina e, in questo caso, le intensificate attività di trivellazioni petrolifere dell’Australia nel Mar di Timor potrebbero aver giocato un ruolo determinante per il loro allontanamento dall’area.
Non deve essere sottovalutato, tuttavia, il ruolo dei cambiamenti climatici, come denuncia lo Studio “Climate velocity and the future global redistribution of marine biodiversity”, anticipato online il 31 agosto 2015 su Nature Climate Change.
Un gruppo internazionale di ricercatori ha modellato l’impatto dei cambiamenti climatici sulla distribuzione di quasi 13.000 specie marine, più di dodici volte il numero di specie precedentemente studiate, trovando che il rapido riscaldamento globale costringerebbe molte specie a ridistribuirsi in nuovi areali, con conseguente impatto sulle specie autoctone, mentre altre con habitat più ristretti, in particolare quelle che vivono attorno ai tropici, saranno soggette a rischi maggiori di estinzione.
“Ciò è particolarmente preoccupante, e molto attinente alle barriere coralline dell’Australia, perché gli studi complementari hanno mostrato alti livelli di rischio di estinzione nei biota tropicali, dove impatti umani localizzati, così come i cambiamenti climatici, hanno provocato un notevole degrado – ha dichiarato uno degli autori dello studio, nonché collega della D’Anastasi al Centro di Eccellenza degli Studi sulla Barriera Corallina del Consiglio delle Ricerche d’Australia presso la James Cook University, John M. Pandolfi – Soprattutto, questo studio dimostra le grandi connessioni geografiche degli effetti dei cambiamenti climatici, per cui gli sforzi di conservazione devono essere facilitati dalla cooperazione tra i Paesi affinché si abbia qualche reale possibilità di combattere le, potenzialmente gravi, perdite di biodiversità che i cambiamenti climatici potrebbero arrecare”.