Seppure i due “pareri motivati” adottati dalla Commissione UE nei confronti dell’Italia non comportino difficoltà di risposta, rimane la figuraccia fatta dal nostro Paese per non aver ancora adottato la Direttiva UE sugli shopper dopo aver adottato per primo una legge che impone severi limiti al loro uso, e per aver cercato di imporre comunque una qualche sede italiana alle Società che attestano la capacità finanziaria e tecnica delle imprese italiane che partecipano a lavori pubblici (SOA) di altri Paesi membri, contravvenendo alla Direttiva relativa ai servizi sul mercato interno.
Dopo le “pesanti” procedure di infrazioni avviate dalla Commissione UE nei confronti dell’Italia nel mese di maggio 2017, il pacchetto di giugno è risultato più “leggero”: 2 “pareri motivati (uno per il settore Ambiente e l’altro per Mercato interno, industria, imprenditoria e PMI.
Desta sorpresa, comunque, il primo che si riferisce agli shopper.
Ci siamo compiaciuti negli ultimi anni per essere stati i primi ad aver introdotto una legge che pone limiti molto stringenti alla vendita delle borse monouso di plastica leggera per la spesa (Legge 28/2012), e per aver costituito il punto di riferimento per la successiva normativa comunitaria (Direttiva 730/2015/UE), peraltro, più blanda della nostra, salvo scoprire ora che tale Direttiva non è stata ancora recepita nel nostro ordinamento nazionale.
In verità, la delega per il suo recepimento è contenuta nel disegno di legge di, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 28 aprile 2017, che conferisce la delega al Governo per il recepimento di 26 direttive europee, nonché per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni di 6 regolamenti europei, attualmente all’esame del Parlamento.
Ma, “gli Stati membri erano tenuti ad adottare misure volte a ridurre il consumo di borse di plastica in materiale leggero entro il 27 novembre 2016– si legge nella motivazione con cui la Commissione UE ha comminato il parere motivato – La direttiva obbliga gli Stati membri a raggiungere questo obiettivo mediante l’applicazione di un prezzo alle borse di plastica in materiale leggero e/o l’introduzione di obiettivi nazionali di riduzione. Alle amministrazioni nazionali è proposta una serie di misure per conseguire gli obiettivi stabiliti di comune accordo, tra questi vi sono strumenti economici, come ad esempio imposte o l’attribuzione di un prezzo. Un’altra possibilità sono gli obiettivi di riduzione a livello nazionale: gli Stati membri devono garantire che l’uso annuale non superi 90 borse di plastica pro capite entro la fine del 2019 e 40 borse entro la fine del 2025. Entrambe le opzioni possono essere conseguite mediante misure obbligatorie o accordi con i settori economici. È anche possibile vietare le borse di plastica, purché tali divieti non vadano al di là dei limiti stabiliti dalla direttiva al fine di preservare la libera circolazione delle merci all’interno del mercato unico europeo“.
Ora l’Italia ha tempo due mese per dare risposte esaurienti che non dovrebbero costituire un problema, ma rimane pur sempre la brutta figura fatta.
L’altro “parere motivato” è un po’ meno grottesco, ma significativo di come anche nel nostro Paese ci sia riluttanza a cedere sovranità nazionale e implementare gli obblighi che derivano dall’appartenenza all’UE.
In questo caso, si tratta delle limitazioni imposte dal nostro Paese alle SOA,le Società che certificano la capacità finanziaria e tecnica delle imprese italiane che partecipano a lavori pubblici.
L’Italia impone alle società di attestazione di altri Stati membri l’obbligo di una sede secondaria nel nostro Paese. Ma, “Tale obbligo costituisce un ostacolo sproporzionato alla libera prestazione di servizi per le imprese stabilite in altri Stati membri – secondo la Commissione UE – il che è incompatibile con la Direttiva servizi (direttiva 2006/123/CE) e con l’articolo 56 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE)“.
Bisogna ricordare che la vicenda nasce con il DPR 207/ 2010 “Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante ‘Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE’ ” che aveva imposto alle SOA di avere la sede legale nel territorio italiano.
Contro tale norma, la Commissione UE aveva avviato una procedura di “messa in mora” (2013/4212). In risposta, il Consiglio dei Ministri nella seduta del 4 dicembre 2015, anche in questo caso all’interno di un disegno di legge di delegazione europea (2015), aveva modificato la norma prevedendo che le SOA dovessero avere in Italia una sede qualsiasi, anche solo operativa.
Questo tentativo “furbesco” di introdurre comunque una sede delle SOA sul territorio italiano è stato egualmente ritenuto dalla Commissione UE contrario alle normative comunitarie, per cui all’Italia non resta che togliere questa limitazione se non vuole rischiare il deferimento alla Corte di Giustizia europea, con le conseguenti multe, visto che il giudice europeo con la pronuncia del 16 giugno 2015 (Causa pregiudiziale C 593/13) aveva già sentenziato che l’articolo 14 della Direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno “osta a una normativa di uno Stato membro in forza della quale è imposto alle Società aventi la qualità di organismi di attestazione di avere la sede nel territorio nazionale“.