Biodiversità e conservazione

Conoscere la biodiversità per un’alimentazione opportuna

Livia Polegri: «Vecchie varietà e specie neglette o abbandonate hanno spesso valori nutrizionali migliori rispetto alle varietà moderne, e grazie alla loro biodiversità (intesa come diversità genetica) hanno un impatto positivo sul microbioma e quindi sulla salute».

di Francesco Fravolini

La biodiversità è una risorsa da valorizzare per una corretta alimentazione. Non solo. Riguarda la cultura e la filosofia di vita, senza tralasciare le convinzioni personali. Adottare un’alimentazione sana significa prevenire l’insorgenza di malattie, perché la prima cura è quella di scegliere accuratamente il cibo da mangiare. Proprietà e vitamine sono contenute nei diversi prodotti, quindi è importante conoscere le proprietà per assicurare una giusta alimentazione. A Livia Polegri, facente parte del 3A-Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria, chiediamo di approfondire l’argomento per conoscere meglio il settore economico.

La biodiversità quanto incide su una sana alimentazione?
«In diversi modi: il miglioramento genetico che ha prodotto le moderne varietà ha avuto come target gli obiettivi importanti per la moderna agricoltura, tralasciando spesso gli aspetti organolettici e nutrizionali. Non vale in senso assoluto, ma in generale le vecchie varietà possono per questo avere un profilo nutrizionale più complesso di quelle moderne, essendo in particolare molto ricche di sali minerali e antiossidanti. Non solo. Hanno una certa diversità genetica, in contrasto con l’uniformità di quelle moderne: questo si riflette positivamente sulla composizione del microbioma e sulla sua resilienza (cioè la capacità di ritornare in equilibrio dopo uno stress). In generale, per questo motivo, mangiare non solo vecchie varietà ma anche specie diverse, alcune delle quali dimenticate (ad esempio farro, monococco, miglio, grano saraceno, avena come fonte di carboidrati alternativi al grano) ha un impatto molto positivo sul microbioma e quindi sulla salute. Ovviamente dipende molto anche dalle modalità di trasformazione. Per fare una sintesi: vecchie varietà e specie neglette o abbandonate hanno spesso valori nutrizionali migliori rispetto alle varietà moderne, e grazie alla loro biodiversità (intesa come diversità genetica) hanno un impatto positivo sul microbioma e quindi sulla salute».

Come valorizzare questa ricchezza della gastronomia?
«In primis studiandone le caratteristiche e cercando di capire quali sono gli aspetti da valorizzare e quelli da minimizzare, perché in generale queste varietà non hanno solo pregi, ad esempio spesso mal si adattano a filiere lunghe del fresco, perché hanno bassissima shelf-life in confronto alle varietà moderne (pomodori, ad esempio). Poi sperimentare il tipo di trasformazione più adatto in funzione delle caratteristiche, anche per non perdere il vantaggio di un elevato valore nutrizionale. Ad esempio: avere una vecchia varietà di grano dal buon valore nutrizionale e farne una farina “00” non ha senso, perché nella raffinazione si perdono quasi tutti i componenti nutrizionali che ne fanno una varietà migliore delle altre. La cosa importante spesso è comunicare anche quello che il prodotto racconta della comunità che lo ha conservato e del territorio in cui si è evoluto. Quindi non solo le pratiche tradizionali tipiche della zona ma anche tutti i saperi collegati: riti, frasi popolari, proverbi, memoria storica, cultura locale. La valorizzazione del prodotto come espressione del territorio è quella che paga di più, perché permette di veicolare con il prodotto anche contenuti di valore culturale, intercettando i consumatori attenti non solo alla salubrità degli alimenti ma anche allo sviluppo dei territori».

Le persone conoscono la biodiversità come alternativa della gastronomia?
«Secondo me il consumatore medio non ha un’idea chiara della parola “biodiversità”, sia perché è molto complessa da comunicare, sia perché negli ultimi tempi è prevalsa l’equazione agrobiodiversità = prodotto tipico, che non è sempre vera. In generale è necessaria una maggiore consapevolezza del consumatore verso la produzione di cibo, dell’impatto che ha non solo sulla salute umana ma anche sull’ambiente, sui rapporti sociali, sui diritti, sull’economia dei territori, sul paesaggio, sulle possibilità di sviluppo delle comunità locali. Dopo che la grande distribuzione ha abbassato drasticamente il prezzo dei prodotti agricoli il consumatore ha difficoltà a dare un valore reale al cibo che acquista. Il fatto che spesso vecchie varietà o razze siano meno produttive di quelle moderne non aiuta, perché per coprire i reali costi di produzione il prezzo è necessariamente più alto. Per questo è importante comunicare al consumatore qual è il valore reale di ciò che acquista, e questo non è facile».

Articoli simili

Lascia un commento

* Utilizzando questo modulo accetti la memorizzazione e la gestione dei tuoi dati da questo sito web.