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Una sorgente magmatica all’origine del terremoto nell’area Sannio-Matese

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Ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia (DFG-UNIPG), hanno rivelato la presenza nell’area del Sannio-Matese di una sorgente attiva di magma che ha generato il terremoto del 2013-2014 e che potrebbe dar luogo ad altri fenomeni di “magnitudo significativa”.

Il 3 gennaio 2018 su Science Advances, la Rivista online dell’American Association for the Advancement of Science, è stato pubblicato lo Studio “Seismic signature of active intrusions in mountain chains” che impatta sulle conoscenze della struttura, composizione e sismicità delle catene montuose, sui meccanismi di risalita dei magmi e dei gas e su come monitorarli. Secondo lo studio, infatti, il terremoto verificatisi nell’Appennino tra Molise e Campania non sarebbe correlato a tensioni della crosta terrestre, ma alla presenza di sorgenti magmatiche attive.

Le catene montuose sono generalmente caratterizzate da terremoti causati dall’attivazione di faglie – ha spiegato Francesca Di Luccio, geofisico dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e coordinatrice della ricerca insieme al collega Guido Ventura – tuttavia, studiando una sequenza sismica anomala avvenuta nel dicembre 2013-2014 nell’area del Sannio-Matese con magnitudo massima 5, abbiamo scoperto che questi terremoti sono stati innescati da una risalita di magma nella crosta tra i 15 e i 25 km di profondità”.

Un’anomalia legata non solo alla profondità dei terremoti di questa sequenza, rispetto a quella più superficiale dell’area, inferiore a 10-15 km – ha proseguito la ricercatrice – ma anche alle forme d’onda degli eventi più importanti, simili a quelle dei terremoti in aree vulcaniche”.

Il magma o il gas su cui preme, nelle profondità degli Appennini, hanno una pressione così forte da spaccare le rocce o da sollecitare le spaccature già esistenti, eventualmente causando terremoti normali (quelli di origine tettonica). A conferma di tutto ciò vi è il fatto che i gas rilasciati da questa intrusione di magma, costituiti prevalentemente da anidride carbonica, sono arrivati in superficie come gas libero o disciolto negli acquiferi di questa area dell’Appennino meridionale.

Questo risultato – ha aggiunto Guido Ventura, vulcanologo dell’INGV – apre nuove strade alla identificazione delle zone di risalita del magma nelle catene montuose e mette in evidenza come tali intrusioni possano generare terremoti con magnitudo significativa. Lo studio della composizione degli acquiferi consente di evidenziarne anche l’anomalia termica”.

Per fortuna, sostengono i ricercatori, è da escludere che il magma possa arrivare in superficie formando un vulcano.
Tuttavia, se l’attuale processo di accumulo di magma nella crosta dovesse continuare – ha sottolineato Giovanni Chiodini, geochimico dell’INGV – non è da escludere che, alla scala dei tempi geologici, ossia migliaia di anni, si possa formare una struttura vulcanica”.

Durante lo studio sono stati raccolti dati sismici e geochimici e sviluppati modelli sulla risalita dei fluidi. La ricerca è iniziata con l’analisi della sismicità della sequenza del Sannio-Matese, per poi concludersi con la modellazione delle condizioni di intrusione magmatica.

I risultati fin qui raggiunti aprono nuove strade non solo sui meccanismi dell’evoluzione della crosta terrestre – ha concluso Di Luccio – ma anche sulla interpretazione e significato della sismicità nelle catene montuose ai fini della valutazione del rischio sismico correlato”.

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