Il Rapporto 2020 dell’Osservatorio CittàClima di Legambiente traccia una fotografia degli territori colpiti da fenomeni meteorologici estremi in costante aumento, avvenuti in Italia tra il 2010 e il 2020, e segnala le buone pratiche che potrebbero essere replicate, qualora il Governo decidesse di inserire il dissesto idrogeologico del territorio tra le priorità da affrontare con le risorse del Recovery Plan.
Nel corso della Conferenza “Il clima è già cambiato”, trasmessa in live streaming il 25 novembre 2020, uno degli incontri tematici organizzati da Legambiente per individuare le proposte più valide per il Piano nazionale di ripresa e resilienza che il Governo italiano dovrà presentare entro aprile 2021, l’Associazione ambientalista ha presentato il Rapporto 2020 dell’Osservatorio CittàClima, una mappa dei territori colpiti da fenomeni meteorologici estremi tra il 2010 e il 2020.
Record su record, i cambiamenti climatici non arrestano la loro corsa e investono in pieno, con i loro effetti più evidenti, i principali centri urbani di tutto il mondo e l’Italia non fa eccezione, come ha rilevato l’Osservatorio CittàClima di Legambiente in un decennio ha registrato sulla sua mappa 946 fenomeni meteoreologici estremi in 507 Comuni, con impatti suddivisi in categorie, utili a comprendere il rischio climatico nelle diverse aree del territorio nazionale.
Gli allagamenti dovuti a piogge intense sono stati 416 (319 sono avvenuti in città) che hanno determinato 347 interruzioni e danni alle infrastrutture con 80 giorni di stop a metropolitane e treni urbani; 14 casi di danni al patrimonio storico-archeologico.I casi di danni provocati da lunghi periodi di siccità e temperature estreme sono stati 39; 257 eventi con danni dovuti a trombe d’aria; 35 casi di frane causati da piogge intense e 118 eventi (89 avvenuti in città) da esondazioni fluviali.
A causa del maltempo, inoltre, si sono registrati 83 giorni di blackout elettrico e centinaia di vittime: l’Osservatorio CittàClima ha contato 251 morti, di cui 42 riferiti al solo 2019, in aumento rispetto ai 32 del 2018. Le persone evacuate in seguito a frane e alluvioni sono state 50 mila, come rilevato dal CNR.
Sotto la lente d’ingrandimento della mappa dell’Osservatorio CittàClima, le aree urbanizzate della Penisola, le più popolose e spesso sprovviste di una corretta pianificazione territoriale, nonché le più esposte agli effetti dei cambiamenti climatici. Clamoroso, sottolinea l’Osservatorio, il caso di Roma, dove dal 2010 a ottobre 2020 si sono verificati 47 eventi estremi, 28 dei quali riguardanti allagamenti in seguito alle piogge intense. Altro caso importante è quello di Bari, dove gli eventi estremi sono stati 41, soprattutto allagamenti da piogge intense (20) e trombe d’aria (18). Segue quindi Agrigento, con 31 eventi legati ad allagamenti (in 15 casi) e danni alle infrastrutture (in 7 casi) come per i danni da trombe d’aria. Da segnalare anche Milano, con 29 eventi in totale, dove si contano almeno 20 esondazioni dei fiumi Seveso e Lambro.
Soltanto da inizio 2020 a fine ottobre, si sono verificati ben 86 casi di allagamento da piogge intense e 72 casi di trombe d’aria, in forte aumento rispetto ai 54 casi dell’intero 2019 e ai 41 registrati nel 2018. Ancora, 15 esondazioni fluviali, 13 casi di danni alle infrastrutture, 12 casi di danni da siccità prolungata, 9 frane da piogge intense. Legambiente sottolinea come ad aumentare siano gli eventi estremi che riguardano contemporaneamente anche due o più categorie e che gli episodi tendono a ripetersi negli stessi Comuni dove si erano già verificati in passato.
Sempre più drammatiche, in particolare, le conseguenze dei danni da trombe d’aria, che nel Meridione sferzano le città costiere, mentre al Nord si concentrano nelle aree di pianura. Più forti e prolungate le ondate di calore nei centri urbani, dove la temperatura media cresce a ritmi più elevati che nel resto del Paese. Tra i fenomeni estremi a maggiore intensità, anche quelli alluvionali, con quantitativi d’acqua che normalmente cadrebbero in diversi mesi o in un anno e che invece si riversano nelle strade in poche ore, seguiti sempre più spesso da lunghi periodi di siccità. Secondo un recente studio qualora si continuasse con le emissioni di gas serra business as usual il numero di periodi biennali di siccità in Europa si moltiplicherebbero per sette nella seconda metà del secolo.
Secondo il programma di osservazione europea Copernicus, il mese di settembre 2020 è stato il più caldo mai registrato in tutto il mondo. Nonostante i lockdown diffusi, inoltre, le concentrazioni globali di CO2 hanno ufficialmente superato la soglia di 410 ppm . A rischio la salute delle persone, tanto che il paper Valuing the Global Mortality Consequences of Climate Change Accounting for Adaptation Costs and Benefits, pubblicato ad agosto dal National Bureau of Economic Research, stima che le vittime legate all’aumento delle temperature globali arriveranno a eclissare l’attuale numero di morti per tutte le malattie infettive combinate del Pianeta, se non si adotteranno misure per invertire la rotta. Mentre secondo il Climate Risk Index di Germanwatch, tra il 1999 e il 2018 l’Italia ha registrato complessivamente 19.947 morti riconducibili agli eventi meteorologici estremi e perdite economiche quantificate in 32,92 miliardi di dollari, e a pagare le conseguenze maggiori, ancora una volta, saranno i più poveri, nel Belpaese come nel resto del mondo.
“Nel Rapporto 2020 di CittàClima abbiamo tracciato un bilancio degli ultimi dieci anni con numeri e una mappa aggiornata degli impatti nel territorio italiano – ha commentato Edoardo Zanchini, Vicepresidente di Legambiente – L’intento è quello di far capire come serva un cambio delle politiche di fronte a fenomeni di questa portata. L’Italia è oggi l’unico grande Paese europeo senza un piano di adattamento al clima, per cui continuiamo a rincorrere le emergenze senza una strategia chiara di prevenzione. Dal 2013 il nostro Paese ha speso una media di 1,9 miliardi l’anno per riparare ai danni e soltanto 330 milioni per la prevenzione: un rapporto di 6 a 1 che è la ragione dei danni che vediamo nel territorio italiano. Il Recovery plan deve contenere la risposta a queste sfide, con risorse per l’adattamento e un cambio della governance che oggi non funziona. Del resto, oggi sappiamo che cosa dobbiamo fare, come raccontiamo con decine di buone pratiche nel rapporto, e abbiamo tutte le informazioni e gli strumenti per analizzare le aree coinvolte dai fenomeni, per comprenderne le possibili cause antropiche, le scelte insediative, i fenomeni di abusivismo edilizio che ne aggravano gli impatti e individuare efficaci strategie di contrasto e adattamento”.
Il Rapporto passa in rassegna una serie di buone pratiche già in essere, all’estero e in diverse città italiane, con risultati positivi nella prevenzione del rischio e nell’adattamento ai cambiamenti climatici: dai regolamenti edilizi sostenibili allo smart mapping, dalla tutela delle aree verdi estensive alberate a interventi mirati come quelli effettuati in provincia di Pisa, ad esempio, dove si è proceduto al detombamento dei corsi d’acqua, al drenaggio e al rallentamento delle acque meteoriche e all’installazione dei semafori anti-allagamento per prevenire fenomeni alluvionali.
Secondo Legambiente, il Recovery plan deve affrontare di petto il dissesto idrogeologico, affatto disgiunto dalla questione climatica, e tuttavia sempre considerato in un’ottica emergenziale nel nostro Paese:
“Eppure cambiamenti climatici e dissesto idrogeologico sono due facce della stessa medaglia – ha spiegato Andrea Minutolo, Responsabile dell’ufficio scientifico di Legambiente – È evidente come qualsiasi pianificazione territoriale dovrebbe tenere in forte considerazione la componente climatica, che amplifica eventi naturali quali le frane e le alluvioni e si somma a una serie di fattori come consumo di suolo, impermeabilizzazione, espansione urbanistica, erosione costiera, conservazione delle aree naturali: tutti elementi che devono necessariamente rientrare in una logica di programmazione efficace”.
L’Associazione chiede al Governo:
– l’approvazione immediata del Piano di adattamento climatico;
– di rafforzare il ruolo delle Autorità di distretto e dei Comuni negli interventi contro il dissesto idrogeologico, con risorse per la progettazione e realizzazione degli interventi, l’assunzione di tecnici; che le aree urbane diventino la priorità negli interventi di adattamento al clima;
– norme più efficaci per adattare i territori agli impatti climatici e mettere in sicurezza le persone.
A quest’ultimo proposito, Legambiente ritiene che per uscire dal campo della contabilità dei danni e dei morti, occorra cambiare le regole d’intervento con un patto tra Governo, Regioni e Comuni, approvando una Legge dello Stato che consenta di assumere decisioni non più procrastinabili per mettere in sicurezza territori e persone.
Secondo Legambiente, il provvedimento di legge dovrebbe porsi 10 obiettivi:
–vietare qualsiasi edificazione nelle aree a rischio idrogeologico e in quelle individuate dall’ENEA come aree di esondazione al 2100 per l’innalzamento del livello dei mari;
– delocalizzare gli edifici in aree classificate ad elevato rischio idrogeologico;
– salvaguardare e ripristinare la permeabilità dei suoli nelle aree urbane;
– vietare l’utilizzo dei piani interrati per abitazioni;
– mettere in sicurezza le infrastrutture urbane dai fenomeni metereologici estremi;
– vietare l’intubamento dei corsi d’acqua e pianificare la riapertura di quelli tombati nel passato;
– recuperare, riutilizzare, risparmiare l’acqua in tutti gli interventi edilizi;
– utilizzare materiali capaci di ridurre l’effetto isola di calore nei quartieri;
– creare, in tutti gli interventi che riguardano gli spazi pubblici, come piazze e parcheggi, ma anche negli interventi di edilizia private, vasche sotterranee di recupero e trattenimento delle acque piovane;
– prevedere risorse statali per mettere a dimora alberi e creare boschi urbani.