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Desalinizzazione: la “salamoia” prodotta deve essere gestita in modo efficiente

Un nuovo Rapporto di scienziati delle Nazioni Unite avverte che la desalinizzazione a livello globale sta producendo enormi quantità di salamoia chimica che se non adeguatamente trattata determina impatti sull’ambiente marino e rischi di contaminazione alla catena alimentare.

È stato pubblicato on line su Science of The Total Environment prima della pubblicazione cartacea sul numero 657 del 20 marzo 2019, lo Studio The state of desalination and brine production: A global outlook” sostenuto dall’ONU e condotto da ricercatori dell’Istituto per Acqua, Ambiente e Salute dell’Università delle Nazioni Unite (UNU-INWEH) ospitata attualmente dal Governo del Canada, dall’Istituto Water Systems and Global Change,dell’Università di Wageningen (Paesi Bassi) e dal Gwangju Institute of Science and Technology (Corea del Sud), dove si sostiene che il crescente aumento degli impianti di desalinizzazione per far fronte alla penuria crescente di acqua sta creando un serio problema per lo smaltimento dei residui ricchi di sostanze chimiche.

La crescente domanda di acqua e la diminuzione delle risorse stanno esacerbando la carenza idrica nella maggior parte delle regioni del mondo e gli approcci convenzionali basati sulle precipitazioni e sull’apporto fluviale non sono più sufficienti a soddisfare le richieste umane.

A partire da poche strutture, per lo più mediorientali, negli anni ’70, oggi sono presenti 15.906 impianti di desalinizzazione che sono in funzione in 177 Paesi, due terzi dei quali si concentrano in Paesi ad alto reddito, che producono circa 95 milioni di m3/ giorno di acqua desalinizzata per uso umano, pari a quasi la metà del flusso medio delle Cascate del Niagara.

Le attuali tecnologie di desalinizzazione producono “salamoia” (brine) che è associata ad elevati costi di smaltimento oltre che a impatti ambientali. I ricercatori usano il termine “salamoia” per riferirsi a quel concentrato ipersalino che viene scaricato dagli impianti e che deriva dall’acqua utilizzata salata o altamente salmastra. Per ogni litro di acqua dolce prodotta, si scarica un litro e mezzo di salamoia (i valori variano notevolmente, a seconda della salinità dell’acqua di alimentazione, della tecnologia utilizzata e delle condizioni locali).

La produzione di salamoia, secondo i ricercatori, si aggirerebbe attorno ai 142 milioni di m3/giorno, circa il 50% in più rispetto a precedenti stime effettuate, con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar che nell’insieme ne producono il 55% del totale.
Le regioni dell’Asia orientale e Pacifico e del Nord America producono rispettivamente il 18,4% e l’11,9% dell’acqua globale desalinizzata, a seguito delle grandi capacità in Cina (7,5%) e negli Stati Uniti (11,2%).

La desalinizzazione in Spagna (5,7%) rappresenta oltre la metà della desalinizzazione totale in Europa occidentale (9,2%). La quota globale della capacità di desalinizzazione è inferiore per l’Asia meridionale (3,1%), l’Europa orientale e l’Asia centrale (2,4%) e l’Africa subsahariana (1,9%), dove la desalinizzazione è principalmente limitata a piccole strutture per applicazioni private e industriali.

In Italia, secondo gli ultimi dati offerti dall’Istat (2017) il prelievo di acque marine o salmastre per uso potabile rappresenta appena lo 0,1% del prelievo totale (13,619 milioni di m3, su un totale di 9,108 miliardi di m3 di acqua totale prelevata dalle varie sorgenti) e avviene solo in due distretti idrografici: in Sicilia, dove viene dissalata acqua per 12,6 milioni di metri cubi (il 92,5% del totale nazionale) e nell’area dell’Appennino Settentrionale (il restante 7,5%).

La dislocazione globale degli impianti di desalinizzazione (fonte: Elsevier)

Gli impianti del Medio Oriente, che operano in gran parte utilizzando l’acqua di mare e la tecnologia di desalinizzazione termica, producono salamoia quattro volte più di quella che deriva da impianti con processi a membrana, come negli Stati Uniti.

Inoltre, lo smaltimento della salamoia prodotta è determinato, affermano i ricercatori, dalla geografia, ma per lo più la si scarica direttamente in mare, nelle acque superficiali e nelle fognature ovvero in pozzi profondi. Dal momento che la maggior parte di salamoia (80%) viene prodotta da impianti situati entro 10km dalla linea di costa, il residuo non trattato viene scaricato direttamente nell’ambiente marino, innalzando notevolmente la salinità dell’acqua di mare ricevente e inquinando gli oceani con sostanze chimiche tossiche usate come anti-incrostanti nel processo di desalinizzazione, con rame e cloro che destano maggiore preoccupazione.

L’acqua salata immessa esaurisce l’ossigeno disciolto nelle acque riceventi – ha sottolineato Edward Jones che ha lavorato presso UNU-INWEH ed è ora all’Università di Wageningen, principale autore dello Studio –L’alta salinità e la riduzione dei livelli di ossigeno disciolto possono avere un profondo impatto sugli organismi bentonici, che può tradursi in effetti ecologici osservabili lungo tutta la catena alimentare“.

Stante le previsioni che indicano un continuo aumento del numero di impianti di desalinizzazione e quindi del volume di salamoia prodotto in tutto il mondo, gli autori chiedono di migliorare le strategie di gestione della salamoia per limitare gli impatti ambientali negativi e ridurre il costo economico dello smaltimento, stimolando così ulteriori sviluppi tecnologici degli impianti di desalinizzazione per salvaguardare l’approvvigionamento idrico per le generazioni attuali e quelle future.

Nel frattempo, i ricercatori mettono in evidenza le opportunità economiche di utilizzare gli effluenti degli impianti di desalinizzazione nell’acquacoltura, per irrigare le piante tolleranti la salinità, generare elettricità, e recuperare il sale (cloruro di sodio) e i metalli contenuti nella salamoia, tra cui magnesio, gesso, sodio, calcio, potassio, cloro, bromo. Migliorando le tecnologie, potrebbero essere recuperati altre risorse importanti per l’industria dello IoT, dell’automazione e della robotica, come litio, stronzio, rubidio, uranio, il cui recupero è oggi economicamente non competitivo.

È necessario tradurre tali ricerche e convertire un problema ambientale in un’opportunità economica – ha affermato il co-autore Manzoor Qadir, Assistant Director di UNU-INWEH – Questo è particolarmente importante nei Paesi che producono grandi volumi di salamoia con efficienze relativamente basse, come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait e Qatar. L’utilizzo delle acque reflue saline offre potenziali vantaggi commerciali, sociali e ambientali: Il suo uso per l’acquacoltura ha determinato un aumento della biomassa ittica del 300% ed è stato sperimentato con successo per coltivare l’integratore alimentare Spirulina, per irrigare alberi e colture foraggere (sebbene quest’ultimo utilizzo possa causare una progressiva salinizzazione del terreno)“.

 

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