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Bolla del carbonio: fino a 4.000 miliardi di dollari le perdite allo scoppio

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Secondo lo Studio “Macroeconomic impact of stranded fossil fuel assets“, condotto da ricercatori di varie Università e Istituti (Radboud University di NimegaCambridge UniversityCambridge EconometricsOpen University e Macau University) e pubblicato su Nature Climate Change, il consumo di combustibili fossili tenderà a diminuire progressivamente nel prossimo futuro, quale risultato dei continui cambiamenti tecnologici, dell’incremento delle fonti rinnovabili e delle necessarie politiche climatichecon il rischio che la bolla di carbonio, se non deflazionata in anticipo, potrebbe provocare una perdita della ricchezza globale stimata tra 1.000 e 4.000 miliardi di dollari, paragonabile a quella che ha scatenato la crisi finanziaria del 2007, con enormi conseguenze economiche e geopolitiche.

Se i Paesi continueranno a investire in macchinari per la ricerca, l’estrazione, la lavorazione e il trasporto dei combustibili fossili, nonostante la riduzione della loro domanda, finiranno per perdere denaro su questi investimenti a causa delle limitate esportazioni – ha spiegato JeanFrançois Mercure, Vicedirettore del Cambridge Centre for Climate Change Mitigation Research e principale autore dello Studio – I Paesi dovrebbero invece sgonfiare con cura la bolla del carbonio attraverso investimenti in una varietà di settori e un progressivo disinvestimento, dalle modalità con cui verrà effettuato determinerà l’impatto sul settore finanziario della transizione energetica a basse emissioni a basse emissioni di carbonio“.

Diverse importanti economie fanno molto affidamento sulla produzione e sulle esportazioni di combustibili fossili. Il prezzo delle azioni delle compagnie di combustibili fossili è calcolato partendo dal presupposto che tutte le riserve di combustibili fossili saranno consumate. Ma farlo sarebbe incoerente dopo l’Accordo di Parigi che limita l’aumento della temperatura media globale a “ben al di sotto dei + 2 °C rispetto ai livelli preindustriali“.

Purtroppo, osservano gli autori dello Studio, questa prospettiva non ha scoraggiato i continui investimenti in combustibili fossili perché molti ritengono che le politiche climatiche non saranno adottate, o almeno non nel prossimo futuro. Tuttavia, e in modo cruciale, i ricercatori dimostrano che il continuo cambiamento tecnologico, da solo e anche senza nuove politiche climatiche, sta già riducendo la crescita della domanda globale per i combustibili fossili, che potrebbe raggiungere il picco in breve tempo. Le nuove politiche climatiche non farebbero che accentuare l’impatto.

Questa transizione, secondo i ricercatori, si tradurrà in indiscussi Paesi vincitori ovvero gli attuali importatori di fonti fossili come la Cina e l’UE, e Paesi perdenti ovvero esportatori come la Russia, gli Stati Uniti e il Canada, che potrebbero vedere le loro attività industriali dei combustibili fossili sull’orlo della chiusura, messi fuori gioco anche dal tentativo dei Paesi OPEC di mantenere alta la produzione di petrolio, nonostante il forte calo dei consumi di oro nero e dei suoi prezzi, perché i loro giacimenti di petrolio, molto più “sporco”, non sarebbero più competitivi.

Gli scienziati hanno analizzato il declino della domanda di combustibili fossili utilizzando nuove tecniche di modellizzazione che monitorano la diffusione delle tecnologie a basse emissioni di carbonio sulla base di dati empirici. Ne sono esempi le tecnologie per la produzione di energia nelle automobili e nelle abitazioni, che diventano più efficienti e quindi diminuiscono l’uso di combustibili fossili. Hanno poi calcolato quel che comporta per le economie nazionali, in quanto alcune economie perderebbero le entrate derivanti dal settore (principalmente a causa della perdita di competitività), mentre altre economie si libererebbero delle spese e delle importazioni di combustibili fossili ad alto consumo.

Ciò significa – ha aggiunto Mercure – che entro il 2035 la crescita del prodotto interno lordo (PIL) sarà influenzata negativamente nei Paesi produttori di combustibili fossili e positivamente nei Paesi importatori”.

Dopo l’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi, gli scienziati hanno anche modellato cosa succederebbe se gli Stati Uniti continuassero ad investire risorse nella bolla del carbonio invece di diversificare e disinvestire dalla stessa, evidenziando un PIL in ulteriore riduzione.
Con una diminuzione della domanda globale di combustibili fossili, la loro produzione negli Stati Uniti sta diventando non competitiva e potrebbe chiudersi – ha spiegato Mercure – Se gli Stati Uniti rimangono nell’Accordo di Parigi, dovrà promuovere le nuove tecnologie a basse emissioni di carbonio e ridurre il consumo di combustibili fossili, creando posti di lavoro e mitigando la riduzione del reddito, nonostante la perdita dell’industria dei combustibili fossili. Ma se dovesse uscire, perderà comunque l’industria dei combustibili fossili, senza aver promosso le tecnologie a basse emissioni di carbonio, e mancando le opportunità di creazione di nuovi posti di lavoro, senza aver ridotto il consumo interno di combustibili fossili, con risultati economici peggiori qualora si ritirassero effettivamente”.

Secondo i ricercatori, un ulteriore danno economico derivante dalla potenziale esplosione di bolle finanziarie potrebbe essere evitato accelerando sulla decarbonizzazione. I nuovi standard di efficienza implicano che facciamo di più con la stessa quantità di energia, e dal momento che le tecnologie meno recenti e meno efficienti vengono gradualmente eliminate, la transizione, si sottolinea, è quindi irreversibile, ma il suo ritmo può variare a seconda che si applichino o meno le politiche climatiche.

Disinvestire dai combustibili fossili è un’azione prudenziale da compiere– ha concluso Mercure –   Dovremmo guardare attentamente dove stiamo investendo i nostri soldi. Ad esempio, se le società, i fondi pensione e le altre istituzioni finanziarie stiano attualmente investendo sui combustibili fossili, con conseguenti rischi finanziari degli ‘stranded assets’ [destinati a perdere valore], anche se i loro possibili impatti non sono ancora stati completamente determinati, avendo gli osservatori prestato attenzione alla probabile efficacia delle politiche climatiche, ma non alle tecnologie in corso e effettivamente irreversibile transizione. Questo livello di ‘creative destruction’ [distruzione creativa, secondo la definizione dell’economista Schumpeter è il processo selettivo dell’innovazione, a seguito del quale molte aziende spariscono, altre ne nascono, e altre si rafforzano] appare inevitabile ora e deve essere gestito con attenzione“.

Le preoccupazioni per investimenti improduttivi e la necessità di incentivare quelli  sostenibili ha indotto la Commissione UE ad adottare il 24 maggio 2018 un Pacchetto legislativo con misure concrete per gli investimenti verdi, dando al settore finanziario dell’UE un ruolo predominante nel conseguimento di un’economia più verde e più pulita.

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