Sostenibilità

Rapporto Censis 2015: le considerazioni sugli scenari metropolitani

rapporto Censis 2015

Dal “Rapporto Censis 2015” che interpreta, come è consuetudine dell’Istituto di ricerca, i più significativi fenomeni socio-economici del Paese nella fase economica che sta attraversando, emergono molte interessanti considerazioni che sono state ampiamente diffuse e commentate dai media.

In particolare, ci si è soffermati, sulle Considerazioni introduttive dove si sottolinea come la società italiana stia seguendo uno sviluppo fatto sulla sua storia di lungo periodo, sulla capacità inventiva, sulla naturalezza dei processi oggi vincenti: il “resto” che non entra nella cronaca e nel dibattito socio-politico, e non accede al proscenio della visibilità mediatica, ma che di fronte alla profonda crisi della rappresentanza sociale, della dialettica socio-politica e del potere statuale, comincia ad affermare una sua autoconsistenza.

È proprio dal “grande resto”, secondo il Censis, che può cominciare a partire la riappropriazione della nostra identità collettiva.
Cosa resta oggi del grande processo di globalizzazione vista come occidentalizzazione del mondo? Il policentrismo di tanti diversi sviluppi e la crescita faticosa di una poliarchia – ha affermato Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, illustrando il Rapporto annuale dell’istituto – Nella nostra storia, il resto del mito della grande industria e dei settori avanzati è stata l’economia sommersa e lo sviluppo del lavoro autonomo. Il resto del mito dell’organizzazione complessa e del fordismo è stata la piccola impresa e la professionalizzazione molecolare. Il resto della lotta di classe nella grande fabbrica è stata la lunga deriva della cetomedizzazione. Il resto dell’attenzione all’egemonia della classe dirigente è stata la fungaia dei soggetti intermedi e la cultura dell’accompagnamento. Il resto del primato della metropoli è stato il localismo dei distretti e dei borghi. Il resto della spensierata stagione del consumismo (del consumo come status e della ricercatezza dei consumi) è la medietà del consumatore sobrio. Il resto della lunga stagione del primato delle ideologie è oggi l’empirismo continuato della società che evolve. E i processi di sviluppo reale del Paese qui descritti sono il resto delle tante discussioni sulla guerra degli ultimi giorni”.

Dei 9 Capitoli del Rapporto, offriamo la sintesi di quel che attiene di più agli argomenti prediletti da Regioni&Ambiente, rinviando per un’analisi più approfondita alla sua lettura completa che può essere scaricata da: www.censis.it

Scenari metropolitani: la crescita differenziata delle megacity.
La concentrazione di popolazione in forme urbane ha assunto negli ultimi decenni un carattere estensivo e articolato. Oggi in Italia abbiamo 4 grandi regioni urbane composte da circa 900 comuni, con una popolazione complessiva pari a 17 milioni di abitanti, all’interno delle quali troviamo le prime tre città del Paese (Roma, Milano e Napoli), nonché la conurbazione delle quattro città venete (Venezia, Padova, Treviso e Vicenza).

Poi, abbiamo 7 medie regioni urbane, con circa 260 comuni e 8,9 milioni di abitanti, dove si trovano Torino, Genova, Bologna, Firenze e Bari, e, ancora, 7 piccole regioni urbane, con circa 180 comuni e 4,4 milioni di abitanti, tra cui Verona, Palermo e Catania.

Esiste dunque un’armatura urbana di livello superiore che raccoglie poco più di 30 milioni di abitanti e in cui si addensa metà della popolazione italiana (il 49,7%). La rilevanza di queste regioni urbane è destinata a crescere ulteriormente in futuro. Le previsioni demografiche elaborate dal Censis stimano che al 2030 queste regioni urbane nel loro insieme vedranno aumentare la popolazione dell’8,6% contro un incremento complessivo della popolazione italiana stimato nell’ordine del 3,4%. Raccoglieranno quasi 33 milioni di abitanti, con un’incidenza sulla popolazione totale pari al 52,3%. Per molte delle aree-regioni urbane del Centro-Nord la crescita sarà ben più rilevante: la megaregione lombarda incentrata su Milano crescerà dell’11%, l’area romana del 15%, l’area veronese e quella fiorentina del 16%, l’asta emiliana quasi del 20%.

Milano e Roma: dall’Expo al Giubileo, due città sotto i riflettori.
Milano e Roma rappresentano, in ambiti diversi, i nodi che mettono in rete il Paese con i contesti esterni, come dimostrano due grandi eventi come l’Expo (145 Paesi partecipanti, 21 milioni di visitatori in sei mesi) e il Giubileo (attesi 33 milioni di pellegrini e visitatori nel corso dell’Anno Santo). Per avere un’idea del livello di polarizzazione dei beni culturali nella capitale, basta pensare che, considerando il numero di visitatori (37,6 milioni nel 2014) dei primi 50 siti culturali a pagamento italiani (musei, aree archeologiche e monumenti a gestione statale, comunale o privata), ben il 44% è localizzato a Roma e dintorni. Firenze, che si colloca in seconda posizione, assorbe solo il 14% dei visitatori.

Le periferie, vittime dell’intermittenza degli allarmi mediatici e delle politiche.
È passato poco più di un anno da quando su tutti i media italiani ha tenuto banco il tema dell’ “incendio delle periferie”, a seguito dei fatti avvenuti nel quartiere di Tor Sapienza a Roma. Poi l’attenzione è scemata e il tema è di nuovo praticamente scomparso dai radar dei media. La politica nazionale di intervento sui quartieri urbani difficili o degradati si è articolata in un corso più che ventennale (oltre 700 le iniziative finanziate): partita con i primi programmi complessi (come i Programmi di recupero urbano e i Programmi di riqualificazione urbana), nati con finalità solitamente limitate alla riqualificazione edilizia e infrastrutturale; passata poi per le esperienze introdotte dalla Commissione europea con i programmi Urban che puntavano a rafforzare la dimensione integrata dell’intervento; fino ad arrivare al Piano città. Negli anni 2000 le risorse nazionali sono sostanzialmente venute meno, ma va detto anche che le performance realizzative dei programmi intrapresi nei periodi precedenti sono state spesso deludenti, tranne qualche eccezione.

La questione abitativa dopo la grande crisi.
Se tra il 2004 e il 2007 nel mercato immobiliare si era superata la soglia delle 800.000 compravendite l’anno, con la crisi si è scesi prima a 600.000 (triennio 2009-2011), per poi attestarsi negli ultimi quattro anni poco sopra le 400.000 abitazioni scambiate. Se si confrontano i volumi di compravendite delle abitazioni nelle grandi aree urbane del 2007 con quelli del 2014 si vede come nelle cinture metropolitane il mercato si è praticamente dimezzato. Di contro, nei capoluoghi il calo dei volumi di scambio in termini percentuali è in genere assai più contenuto, attestandosi nella maggioranza dei casi tra il 20% e il 30%. Intanto, di anno in anno cresce il numero dei provvedimenti di sfratto (aumentati del 76% dal 2007), riferibili ormai in 9 casi su 10 alla morosità dell’inquilino.

Andamento economico e domanda di trasporto: un rapporto che perde di linearità.
Gli esercizi previsionali basati sulle proiezioni del PIL e dell’occupazione attestano un aumento della popolazione che esprime domanda di mobile (ossia di tutti coloro che si spostano giornalmente, per diverse esigenze e con diverse modalità di trasporto) variabile dal 4,1% all’8,5% nell’intervallo 2015-2030. Nello scenario che prevede il maggiore incremento della popolazione mobile, attestandola a 42,4 milioni, la popolazione che utilizza l’auto passerà dai 26,2 milioni del 2010 ai 27,5 del 2030. Aumenteranno anche gli utenti del trasporto pubblico, da 3,8 a 4,5 milioni. A questi fenomeni si associano i cambiamenti recentissimi, e non ancora consolidati nei numeri, del passaggio dal possesso dei veicoli al loro semplice utilizzo in time sharing.

La riforma dei porti: barra al centro per recuperare competitività.
A fronte del calo dei volumi di merce imbarcata e sbarcata nei porti italiani, nel resto del mondo le merci movimentate sono cresciute di anno in anno. Fatto 100 il livello dei traffici marittimi al 2006, il dato italiano è pari oggi a 72,7 a fronte di un dato aggregato mondiale che si attesta a 124,5. Contribuiscono a queste scarse performance i gravami burocratici connessi all’export: un costo che si materializza nei 19 giorni che mediamente occorrono in Italia per ottenere la documentazione amministrativa per esportare un container, a fronte dei 10 necessari in Francia e Spagna, ai 9 in Germania e ai 7 nei Paesi Bassi.
Secondo il Censis, la riforma dei porti “porta la barra al centro per recuperare competitività”.

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