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Jarawa delle andamane: da “pericolosi” a “in via di estinzione”

Jarawa delle andamane da pericolosi a in via di estinzione

Survival international chiede di boicottare il safari umano.

Dopo il maremoto che si abbatté sulle coste thailandesi, birmane, bangladeshesi, cingalesi e indiane, a seguito dell’altrettanto disastroso terremoto del dicembre 2004 con ipocentro al largo dell’isola di Sumatra, ci furono apprensioni per la sorte delle popolazioni indigene che vivono in isolamento negli arcipelaghi delle Andamane e Nicobare, quasi 600 isole nel Golfo del Bengala a circa 1.300 km dalle coste dell’India, di cui costituiscono uno dei 6 territori.

Fortunatamente, la maggior parte dei gruppi tribali che lì abitano da circa 60.000-65.000 anni era rimasta illesa. Grazie alla loro millenaria simbiosi con la natura dei luoghi e alla loro profonda conoscenza dei fenomeni naturali, gli abitanti si erano già messi in salvo sulle alture assieme agli animali, anche loro messi in guardia dall’insolito ritrarsi della marea.
Solo un gruppo, tuttavia, quello dei Nicobaresi ha avuto circa un terzo della popolazione (contava 30.000 individui) annientato, quando le acque hanno travolto i villaggi lungo la costa. A differenza delle altre tribù, dedite alla caccia, pesca e raccolta di frutti e tuberi, i Nicobaresi sono prevalentemente dei coltivatori e vivono assimilati, convertiti al Cristianesimo.

Quando gli elicotteri degli aiuti sorvolarono l’isola di Sentinel, 72 km2 di superficie dove vive la tribù più isolata dell’area, per verificare la situazione dopo lo tsunami, i membri degli equipaggi avvistarono gruppi di isolani, il cui numero presumibilmente, a detta delle autorità indiane, dovrebbe oscillare tra 50 e 300 abitanti, che minacciavano con le loro armi gli intrusi. In particolare, una foto con un Sentinelese (non si conosce il nome con cui i gruppi si denominano) che puntava arco e freccia contro un elicottero in perlustrazione fece il giro delle varie Agenzie giornalistiche che la diffusero con il commento di una inveterata resistenza degli indigeni all’assimilazione, tanto che l’India ha mantenuto finora una politica di non interferenza, vietando anche di scattare fotografie dei luoghi. Non solo non fanno agricoltura, ma sembra che non siano in grado di riprodurre il fuoco, conservando la brace di precedenti pire, e i loro utensili in metallo sono soltanto il frutto del recupero di materiale proveniente dai relitti di navi affondate e spiaggiate sull’isola. L’equipaggio di una nave mercantile arenatasi sull’isola nell’agosto del 1981 ha dovuto tenere a bada i Sentinelesi con le armi per una settimana prima che la Marina Indiana sopraggiungesse per evacuarli. Sorte peggiore era toccata nel 1896 ad un evaso dalla colonia penale inglese della Grande Andamane che era stato subito ucciso dagli isolani, quando la sua zattera di fortuna era approdata sull’isola. Altrettanto cruenta è stata di recente la fine di due pescatori di frodo. Avventuratisi nel gennaio del 2006 nelle acque poco profonde attorno all’isola, interdette alla pesca, furono attaccati e uccisi dagli indigeni.

Questi residui gruppi di “negritos”, dalla piccola corporatura come i pigmei, sono i discendenti, come i 100 Onge che sopravvivono nelle Piccola Andamane, i 365 Jarawa delle Grande Andamane, i 380 Shompén della Grande Nicobare, della più antica migrazione umana che si sia verificata dall’Africa all’Asia, probabilmente la stessa da cui derivavano gli antenati dei Papua e degli Aborigeni australiani, a dimostrazione delle capacità delle popolazioni paleolitiche di effettuare lunghi viaggi per mare. Sono rimasti isolati anche tra di loro, come denunciano le lingue parlate che non sono mutuamente intelligibili. Una di queste lingue, si è estinta l’anno scorso, con la scomparsa a 85 anni dell’ultima discendente del gruppo Bo, mentre il gruppo Jangli si era già estinto nel 1920.
Questi gruppi sono stati decimati a seguito della colonizzazione britannica, iniziata nel 1858 in queste isole, e che in seguito furono aggregate all’India britannica, sia a causa delle malattie introdotte verso le quali non avevano difese immunitarie sia per il tentativo di civilizzarli, catturandoli e recludendoli nella “Casa delle Andamane” dove sono morti molti componenti delle varie tribù.

Per evitare che i pochi individui rimasti facciano presto la stessa fine, l’organizzazione Survival International, che dal 1969 aiuta i popoli indigeni di tutto il mondo a proteggere le loro vite e i loro fondamentali diritti umani, ha chiesto ai turisti di boicottare la Andaman Trunk Road (ATR), rimasta aperta, nonostante la Corte Suprema indiana ne avesse ordinato la chiusura nel 2002.
“Chiediamo a tutti i turisti di boicottare la strada – ha affermato Stephen Correy, Direttore generale di Survival – Nonostante le direttive, i turisti continuano ad invadere il territorio dei Jarawa, mettendo a rischio le loro vite e trattandoli come animali in uno zoo. Se la situazione non migliorerà, lanceremo un boicottaggio del turismo in tutte le isole Andamane”. La ATR è la strada che collega la capitale Port Blair, nella Andamane del Sud, a Diglipur all’estremità settentrionale della Andamane Centrale, tagliando per 35 km la Riserva territoriale dei Jarawa, costituita il 30 giugno 1956 dal Governo Indiano per garantire protezione alla cultura di tale gruppo etnico rispetto al potere giudiziario ed amministrativo, prevedendone la “non interferenza” e “nessuna imposizione”.

Per primo a studiarne la cultura tra il 1908 e il 1910 fu il britannico A. R. Radcliffe-Brown, fondatore dell’indirizzo funzionalistico negli studi di Antropologia, volto a cogliere i contributi che istituzioni sociali e culturali svolgevano per il sostentamento dell’uomo o per creare condizioni necessarie per il mantenimento e l’esistenza del gruppo sociale. Radcliffe-Brown giudicò la società Jarawa “unspoiled pristine” (primitiva incontaminata) degna di essere salvaguardata, anche se i suoi componenti “risultano tuttora ostili” (“The Andaman Islanders”, 1922). La loro “ostilità” si accentuò allorché furono introdotti nella regione, tra il 1952 e il 1953, dei coloni provenienti dal continente, soprattutto dal Pakistan orientale (l’attuale Bangladesh), assegnando ad ogni famiglia 3, 65 ettari da diboscare e coltivare.
Proprio per evitare interferenze e contaminazioni con gruppi non tribali era stata creata la Riserva che via via venne estesa per superficie. Nel 1975 il Ministero per gli Affari Tribali del Governo Indiano diede avvio alla “Andaman Primitive Tribal Welfare Association”, con lo scopo di controllare e monitorare che le misure di sviluppo dell’area non pregiudicassero gli obiettivi di tutela degli Adim (primitivi).

La costruzione della ATR aveva costituito il momento culminante delle ostilità tra i gruppi tribali e non tribali. Sulle pareti dell’Ufficio tecnico di Mile-Tilak un cartello indica i nomi dei coloni che, impiegati nella costruzione del tratto Jirkatang-Baratang della strada, sono stati uccisi tra il 1969 e il 1972, nel corso di attacchi dei Jarawa.
Questo atteggiamento ostile, ha impedito che i coloni si avventurassero nella Riserva Jarawa, ma dopo che questi, a partire dal 1998, hanno evidenziato un cambiamento dei loro atteggiamenti nei confronti dei coloni, avvicinandosi ai villaggi, specie per curarsi, o disponendosi ai margini della ATR, in attesa di ricevere qualche regalo dai migliaia di turisti che percorrono la strada nella speranza di vedere i “selvaggi”, come se fosse un safari umano, le incursioni dei bracconieri all’interno della riserva si sono intensificate, riducendo le possibilità di caccia degli indigeni e rischiando di compromettere i loro modelli culturali.
“I Jarawa sono perfettamente in grado di decidere del proprio futuro per esercitare questo diritto – ha aggiunto Sophie Grieg di Survival International – Tuttavia, la foresta da cui dipende la loro sopravvivenza deve essere protetta e non devono essere costretti a vivere nel modo che gli altri ritengono sia migliore per loro. La storia dimostra che le conseguenze dei tentativi compiuti per imporre lo sviluppo ai popoli tribali e allontanarli dalle loro terre sono sempre disastrosi”.

Di certo, i 762 cm di ampiezza della strada non possono costituire una barriera tra i 365 Jarawa e i 350.000 coloni che abitano dall’altra parte della riserva e che ritengono indispensabile quell’arteria per lo sviluppo della regione.
Dopo che Shri Manoranjan Bhakta, l’unico rappresentante delle Andamane e Nicobare al Parlamento Indiano, aveva inviato il 19 giugno 2005 una lettera al Governatore delle Isole in cui chiedeva di intraprendere delle misure per evitare la precarietà esistenziale dei Jarawa, ma anche dei coloni in continua crescita che subiscono i contraccolpi della diminuzione dei prezzi e delle rese delle produzioni agricole, il Ministero degli Affari Tribali ha incaricato un Gruppo di studio di verificare e analizzare la situazione sul campo, di cui ha fatto parte l’antropologo Vishvajit Panda. Questi, nel suo articolo diffuso on line nel 2007 (“From dangerous to endangered: Jarawa “primitives” and welfare politics in the Andaman Islands”), riporta la risposta data da un Jarawa a cui, prima di essere dimesso da un distretto sanitario dove era stato curato, era stato chiesto se un giorno pensasse di vivere stabilmente nel villaggio: “Vivere nel villaggio vorrebbe dire rinunciare a sentire il mutare delle stagioni e dei venti, e i conseguenti cambi nella varietà di alimenti disponibili nella foresta. Gli agricoltori abitano in un sol luogo e questo non è buono”.
Eppure, qualche cambiamento nei loro comportamenti sembra essere inevitabile se vogliono (e debbono) sopravvivere come gruppo etnico, altrimenti c’è il rischio che i Jarawa rimangano segregati nello “zoo”, con tutti gli esiti negativi che ne conseguono.

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