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Estrazione petrolio e gas: emissioni globali di metano superiori alle stime

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Gli scienziati sono preoccupati per l’aumento delle concentrazioni in atmosfera di questo potente gas serra dal 2005 in poi, che nel 2014 e 2015 ha toccato i 10 ppm, contro lo 0,5 ppm dei primi anni 2000.

Le emissioni globali di metano ed etano conseguenti l’estrazione di petrolio e gas tra il 1980 e il 2012 sono state di gran lunga superiori a quanto finora creduto, in alcuni casi il doppio delle precedenti valutazioni.
Ad affermarlo è un nuovo Studio condotto da Lena Höglund-Isaksson Ricercatrice Senior presso l’Istituto Internazionale per l’Analisi dei Sistemi Applicati (IIASA) di
 Schloss Laxenburg (Austria) e pubblicato su n. 2 (febbraio 2017) della Rivista Environmental Research Letters.

La ragione di questa discrepanza, spiega l’autrice di “Bottom-up simulations of methane and ethane emissions from global oil and gas systems 1980 to 2012” sta nel fatto che per la prima volta sono stati presi in esame i diversi sistemi gestionali di produzione del petrolio e le condizioni geologiche dei vari siti, mentre le precedenti valutazioni si sono limitate a basarsi su quanto era accaduto nei siti petroliferi del Nord America estendendo le risultanze in maniera semplicistica alle restanti parti del mondo.

Il metano (CH4) è un potente gas serra, che gli scienziati classificano come il secondo principale sollecitatore dei cambiamenti climatici, dopo il biossido di carbonio (CO2). Oggi gli scienziati concordano che la sua capacità d’intrappolare il calore (Global Warming Potential) sia 34 volte superiore a quella della CO2 su un arco temporale di 100 anni e, addirittura, di 84 volte su un periodo più breve di 20 anni. Tuttavia, mentre le concentrazioni di metano nell’atmosfera possono essere facilmente misurate, è difficile determinare il contributo delle diverse fonti, sia umane che naturali. Eppure, tali informazioni sono necessarie per poter ridurre le emissioni.
In un giacimento di petrolio vi è uno strato di gas sovrastante che contiene una quantità di metano che varia dal 50% all’85% – spiega la Höglund-Isaksson – Quando si trivella fuoriesce anche questo gas associato“.
Negli impianti di estrazione del petrolio in Nord America, la quasi totalità di questo gas viene recuperato e quello che non viene recuperato per la maggior parte viene bruciato (flaring) per evitare dispersioni (e potenziali esplosioni), mentre soltanto una frazione molto piccola viene immessa in atmosfera, contrariamente a quanto avviene in altre parti del mondo, dove i tassi di recupero sono più bassi e sono rilasciate grandi quantità di questo gas.
Gli inventari esistenti di emissioni globali hanno utilizzato approcci piuttosto semplicistici per la stima la quantità di metano fuoriuscito durante le estrazioni di petrolio – aggiunge la ricercatrice dello IIASA – limitandosi ad annotare le scarse misure dirette che sono state rilevate nei pozzi petroliferi del Nord America, estendendolo alla produzione di petrolio nelle varie aree del mondo“.

In pratica, si sarebbe applicata la percentuale di metano fuoriuscito dalle produzioni del Nord America alle quantità di petrolio estratto dagli altri pozzi nei vari continenti. Da qui, il grave margine di errore che si verificherebbe e la decisione presa dalla Höglund Isaksson di sviluppare un nuovo metodo che potesse tener conto maggiormente delle molte variabili presenti nella produzione di petrolio in tutto il mondo.

Nel nuovo Studio, infatti, si sono stimate le emissioni globali di metano dagli impianti di petrolio e gas di oltre 100 Paesi nel corso di 32 anni, utilizzando una varietà di dati specifici del singolo Paese che vanno dai volumi registrati di gas alle immagini satellitari che sono in grado di mostrare il flaring, nonché le misurazioni atmosferiche di etano (C2H6), gas che viene rilasciato insieme al metano e che è collegato più direttamente alle attività di produzione petrolifera e gasiera.

Da tale operazione è risultato che nel 1980, in particolare, le emissioni globali di metano sono state del doppio rispetto alle precedenti stime e che l’industria petrolifera russa ha contribuito più di tutte le altre all’emissione di grandi quantità di metano in atmosfera, tal che il calo della produzione petrolifera degli anni ’90 in Russia ha coinciso con un declino delle emissioni globali di metano che sono proseguite fino al primi anni 2000.
Nello stesso tempo, la ricercatrice ha constatato che i sistemi di recupero del metano stanno diventando sempre più diffusi, con conseguente riduzione delle emissioni. Tuttavia, dal 2005 le emissioni dagli impianti di petrolio e gas sono rimaste pressoché stabili, probabilmente a causa, secondo la ricercatrice, della crescente produzione di gas di scisto (shale gas) che controbilancia in gran parte la riduzione delle emissioni determinata dal recupero del gas.
La Höglund-Isaksson fa notare che le sue stime sono buone nella misura in cui i dati a disposizione lo consentono, ma sui numeri permangono delle incertezze e che “Per migliorare i dati, sarebbe necessaria una stretta collaborazione tra la comunità scientifica e l’industria petrolifera e del gas, per poter effettuare misurazioni disponibili più dirette dalle diverse parti del mondo“.

Se da tale studio ne consegue che si potranno avere misurazioni più attendibili sulle quantità di metano rilasciato in atmosfera, di contro, un altro studio (The growing role of methane in anthropogenic climate change), sempre su Environmental Research Letters (numero di dicembre 2016) condotto da un team internazionale di scienziati riferisce che le concentrazioni di metano di origine antropica hanno cominciato ad aumentare intorno al 2007 e sono cresciute vertiginosamente nel 2014 e 2015, con un aumento annuo di concentrazioni pari ad oltre 10 ppm all’anno, quando nei primi anni 2000 aumentavano con una media annua di 0,5 ppm..

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