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Calcestruzzo ultraresistente degli antichi romani: risolto l’enigma

Secondo uno Studio coordinato dal Dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del Massachusetts Institute of Technology (MIT), a cui ha collaborato anche la start-up italiana DMAT, la ragione per cui i monumenti e le infrastrutture degli antichi romani stanno sfidando i secoli sta in una strategia manifatturiera di progettare il calcestruzzo, la cui applicabilità oggi aprirebbe la strada non solo all’allungamento della durata di vita delle costruzioni e alla riduzione  dell’impatto climatico globale del cemento, la cui produzione attualmente rappresenta circa l’8% delle emissioni globali di gas serra. 

Gli antichi romani furono maestri d’ingegneria, costruendo vaste reti di strade, acquedotti, porti e imponenti edifici, i cui resti sono sopravvissuti per due millenni. Molte di queste strutture sono state costruite con cemento, come il famoso Pantheon di Roma, che ha la cupola in cemento non armato più grande del mondo ed è ancora intatto e alcuni antichi acquedotti romani che tuttora forniscono acqua alla città, mentre molte moderne strutture in cemento si sono già sgretolate.

Per decenni i ricercatori hanno cercato di capire il segreto di questo antico materiale da costruzione ultra resistente, avendo sopportato condizioni particolarmente difficili, pur costruiti in luoghi sismicamente attivi.

Ora, un team di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT), dell’Università di Harvard e di Laboratori in Svizzera e in Italia (DMAT, start-up di Udine che sviluppa tecnologie e componenti per calcestruzzi durevoli e sostenibili) hanno compiuto progressi in questo campo, scoprendo le antiche strategie di produzione del calcestruzzo che incorporavano diverse funzionalità chiave.

I risultati dello Studio sono stati pubblicati il 6 gennaio 2023 sulla Rivista Science Advances con il titolo “Hot mixing: Mechanistic insights into the durability of ancient Roman concrete”.

Per molti anni, i ricercatori hanno ipotizzato che la chiave della durabilità dell’antico calcestruzzo fosse basata su un ingrediente: la pozzolana ovvero la cenere vulcanica proveniente dalla zona di Pozzuoli, nel Golfo di Napoli. Questo specifico tipo di cenere veniva persino inviato in tutto il vasto impero romano per essere utilizzato nelle costruzioni ed era descritto come un ingrediente chiave per il calcestruzzo nei resoconti di architetti e storici dell’epoca (Vitruvio e Plinio).

A un esame più attento, i campioni di questi antichi manufatti hanno rivelato anche piccole, distintive caratteristiche minerali bianco brillante su scala millimetrica, componente onnipresente dei calcestruzzi romani. Questi pezzi bianchi, spesso indicati come “clasti calcarei”, provengono dalla calce, un altro componente chiave dell’antica miscela di calcestruzzo. 

Da quando ho iniziato a lavorare sul cemento dell’antica Roma, sono sempre stato affascinato da queste caratteristiche – ha affermato Admir Masic, Professore al Dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del MIT – Questi frammenti non si trovano nelle moderne formulazioni, quindi perché sono presenti in questi materiali antichi?

Precedentemente ignorata come semplice prova di pratiche di miscelazione sciatte o di materie prime di scarsa qualità, il nuovo studio suggerisce che proprio questi minuscoli clasti di calce conferissero al calcestruzzo una capacità di autoriparazione precedentemente non riconosciuta. 

L’idea che la presenza di questi clasti di calce fosse da attribuire semplicemente a uno scarso controllo di qualità mi ha sempre infastidito – ha proseguito Masic, con Laurea e Dottorato in Chimica all’Università di Torino – Se i romani si sono impegnati così tanto per realizzare un materiale da costruzione eccezionale, seguendo tutte le ricette dettagliate che erano state ottimizzate nel corso di molti secoli, perché avrebbero dovuto impegnarsi così poco per garantire la produzione di un prodotto finale ben miscelato? Ci doveva essere qualcosa in più, in questa storia”.

Dopo un’ulteriore caratterizzazione di questi clasti di calce, utilizzando tecniche di imaging multiscala e mappatura chimica ad alta risoluzione sperimentate nel Laboratorio di ricerca di Masic, i ricercatori hanno acquisito nuove informazioni sulla loro potenziale funzionalità.

Storicamente si presumeva che quando la calce veniva incorporata nel calcestruzzo romano, fosse prima combinata con l’acqua per formare un materiale pastoso altamente reattivo, in un processo noto come slaking ove l’ossido di calce è fatto reagire con una quantità di acqua molto superiore. Ma questo processo da solo non potrebbe spiegare la presenza dei clasti di calce. Masic si è quindi chiesto: “Era possibile che i romani avessero effettivamente utilizzato direttamente la calce nella sua forma più reattiva, nota come calce viva?

Studiando campioni di questo antico calcestruzzo, lui e il suo team hanno determinato che le inclusioni bianche erano, in effetti, costituite da varie forme di carbonato di calcio. E l’esame spettroscopico ha fornito indizi che questi si erano formati a temperature estreme, come ci si aspetterebbe dalla reazione esotermica prodotta utilizzando calce viva al posto o in aggiunta alla calce spenta nella miscela. La miscelazione a caldo (hot mixing), secondo le conclusioni dello studio, è la chiave della natura super resistente.

I vantaggi della miscelazione a caldo sono duplici – ha aggiunto Masic – In primo luogo, quando l’intero calcestruzzo viene riscaldato a temperature elevate, consentendo prodotti chimici che non sono possibili se si utilizzasse solo calce spente e producendo composti associati ad alta temperatura che altrimenti non si formerebbero. In secondo luogo, l’aumento di temperatura riduce significativamente i tempi di indurimento e fissazione così che tutte le reazioni siano accelerate, consentendo una costruzione molto più veloce“.

Durante il processo di miscelazione a caldo, i clasti di calce sviluppano un’architettura nanoparticellare caratteristicamente fragile, creando una fonte di calcio facilmente fratturabile e reattiva che, come suggerito dal team, potrebbe fornire una funzionalità critica di autoriparazione. Non appena iniziano a formarsi minuscole crepe all’interno del calcestruzzo, il materiale può reagire con l’acqua, creando una soluzione satura di calcio, che può ricristallizzarsi come carbonato di calcio e riempire rapidamente la fessura oppure reagire con materiali pozzolanici per rafforzare ulteriormente il materiale composito. Queste reazioni avvengono spontaneamente e quindi riparano automaticamente le crepe prima che si diffondano.

Per dimostrare che questo era effettivamente il meccanismo responsabile della durabilità del calcestruzzo romano, il team ha prodotto campioni di calcestruzzo miscelato a caldo che incorporavano formulazioni sia antiche che moderne, che sono stati deliberatamente incrinati e poi ha fatto scorrere l’acqua attraverso le fessure. Come previsto, entro due settimane le crepe erano completamente risanate e l’acqua non poteva più scorrervi. Un pezzo identico di cemento fatto senza calce viva non si è mai risanato e l’acqua ha continuato a penetrare nel campione. Come risultato di questi riusciti test, il gruppo sta lavorando per commercializzare questo materiale cementizio modificato.

È emozionante pensare a come queste formulazioni di calcestruzzo più durevoli potrebbero allungare la durata di questi materiali, ma anche come migliorare la durata delle formulazioni di calcestruzzo stampate in 3D – ha concluso Masic – L’estensione della vita funzionale e lo sviluppo di forme di calcestruzzo più leggere potrebbero contribuire a ridurre l’impatto ambientale della produzione di cemento, che attualmente rappresenta circa l’8%delle emissioni globali di gas serra“.

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