Il contributo della “scienza” locale per superare l’emergenza idrica globale.
“Chi non conosce la storia non è in grado di progettare il futuro”. (Antico proverbio cinese)
L’eccessiva sicurezza che le tecnologie sono in grado di dare risposte alle emergenze ambientali, perpetuando crescita e sviluppo, fa sì che venga meno quel senso di responsabilità che contraddistingueva, viceversa, le comunità tradizionali, attente a non rompere l’equilibrio degli ecosistemi, nella consapevolezza dell’incerta disponibilità delle risorse. Negando la sua memoria storica e se stesso, in quanto depositario e, al contempo, produttore di conoscenze, l’uomo moderno ha perduto il senso dell’interconnessione dei vari elementi che definiscono l’ecosistema.
Quantunque possa sembrare un po’ anacronistico, c’è bisogno di recuperare le antiche tradizioni culturali che non sono obsolete tradizioni folcloristiche, bensì la “scienza” tradizionale del luogo in grado di dare risposte adeguate anche nel III millennio.
Così nel corso del XXI secolo che si preannuncia come il secolo che dovrà gestire in modo oculato le risorse idriche sottoposte a forti stress a livello globale sia per effetto delle maggiori necessità 26 per scopi alimentari di una popolazione che al 2050 si incrementerà di altri 2 miliardi di individui, sia per la diminuzione e l’irregolarità delle precipitazioni, conseguenti ai cambiamenti climatici in corso, sarà necessario riflettere sulla validità a lungo termine dei molti approcci con cui viene affrontato in problema.
Sebbene alcuni di questi possano sembrare romanzeschi, spesso hanno alle loro spalle antecedenti e parallelismi storici, affondando le loro radici all’interno di tradizioni scientifiche, sociali, culturali e intellettuali di varie epoche.
“Le conoscenze tradizionali hanno permesso nel passato la realizzazione dei monumenti, delle città e dei paesaggi che apprezziamo, ma non vanno studiate e protette solo per il loro significato storico: esse hanno una validità di grande attualità”, ha affermato Pietro Laureano, Architetto e Consulente UNESCO per le zone aride e gli ecosistemi in pericolo, nonché Presidente dell’Istituto Internazionale delle Conoscenze Tradizionali, a cui è spettato il compito di aprire con una key note la Conferenza internazionale delle conoscenze tradizionali per la gestione delle risorse idriche, che si è svolta dal 21 al 23 febbraio 2012 a Yadz (Iran).
“La crisi idrica, il degrado dei suoli, la desertificazione possono trovare risposta in queste conoscenze e tecniche che permettono un approccio più adatto alla situazione locale e rispettoso degli ecosistemi – ha proseguito Laureano – Queste tecniche recuperano le identità della comunità, sono ad alta componente di lavoro e non distruggono risorse naturali, contribuendo alla diminuzione della povertà, al perseguimento della pace e di un futuro sostenibile”.
Alla Conferenza hanno preso parte oltre 300 esperti e studiosi provenienti da 30 Paesi, che hanno presentato i risultati dei loro studi in merito alla sostenibilità delle tradizionali tecniche di gestione dell’acqua e alla possibilità che tali tecnologie possano essere incorporate nel processo decisionale a medio-lungo periodo, con il coinvolgimento della società civile.
Si è pure discusso di come ridurre al minimo il rischio di fallimento delle innovazioni tecnologiche alla luce delle esperienze illuminanti e dei preziosi suggerimenti che derivano dalle tradizionali pratiche.
Gli intervenuti sono entrati a far parte dell’ “International Club Qanat”, riconosciuto dall’UNESCO che ha istituito nel 2005 a Yadz l’International Center on Qanats and Historic Hidraulic Structures (ICQHS), essendo la città famosa per i suoi storici sistemi idraulici.
Se i romani hanno inventato gli acquedotti, i persiani hanno creato i Qanat. Però, mentre tutti sanno cos’è un acquedotto, pochi sono in grado di dire cos’è un qanat, anche se gli acquedotti romani sono caduti in rovina, mentre i qanat, seppur più antichi, sono tuttora Schema di funzionamento di un qanat 27 utilizzati, come avviene in Iran, Paese percorso da 170.000 km. di canali sotterranei, la maggior parte dei quali è ancora funzionante.
Posta a 1.216 m s.l.m., a cavallo tra i deserti del Dasht-e Kavir e del Dasht-e Lut, la città di Yadz (la Ysatis del Regno dei Medi) vanta 3.000 anni di storia.
Nonostante sia la più secca tra le città iraniane (60mm annui) e una temperatura estiva frequentemente ed abbondantemente sopra i 40 °C, Yadz deve la sua ricchezza e fama alla capacità dei suoi abitanti di adattarsi alle condizioni ambientali, costruendo case con le torri del vento per la climatizzazione degli ambienti. Tramite lo scambio di energia termica tra l’aria calda e l’acqua più fredda che viene incanalata in precisi percorsi sotterranei al di sotto degli edifici, si riesce a mantenere le abitazioni fresche. L’approvvigionamento idrico sia per gli insediamenti umani che per l’irrigazione viene assicurato stabilmente dai qanat (kariz, in persiano). Dopo aver individuato una fonte acquifera più elevata (le montagne attorno a Yadz superano i 4.000m) si segue la traccia delle principali vie sotterranee dove l’acqua fluisce per effetto della gravità. Si scavano, quindi, pozzi verticali che permettono l’accesso ad un canale sotterraneo scavato in lieve pendenza (qanat), che può trasportare l’acqua a grande distanza senza perderne quantità a causa dell’evaporazione e può permettere l’irrigazione ai terreni alluvionali. Canali sotterranei più piccoli sono costruiti in prossimità delle città, dove numerosi altri kariz attingono alla preziosa risorsa.
Gli Arabi hanno diffuso, poi, questa antica tecnica nel bacino del Mediterraneo, soprattutto in Spagna e Libia, ma anche a Palermo il qanat percorre molte gallerie sotto la città. Altri, qanat risalenti ad epoca pre-romana, si trovano in Abruzzo (Atri), e di recente a Bisenti (Teramo) ne è stato scoperto uno o meglio “riscoperto”, come affermato dal suo esploratore, la cui “funzionalità è perfetta. Quando va via l’acqua in paese si attinge a quella fonte che, però, non è censita: nessuno sa da dove prende l’acqua” (da “Graziano Paolone e il qanat di Bisenti”, in Abruzzo in Arte, 13 febbraio 2012).