Il quadro complessivo che emerge dal Rapporto Coop 2013 non induce al facile e ingiustificato ottimismo sul superamento della crisi che ha ridotto i consumi degli italiani e le procedure di acquisto.
Mentre il Centro studi di Confindustria (Csc) ha appena annunciato che con il 3° trimestre del 2013 finirà la recessione e che nel 4° l’Italia comincerà la ripresa, seppur “lentamente”, segnali opposti provengono dal mondo delle Cooperative, con il Rapporto Coop 2013 “Consumi & distribuzione” redatto dall’Ufficio Studi di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori) con la collaborazione scientifica di Ref. Ricerche e il supporto d’analisi di Nielsen, che è presentato nei giorni scorsi dal Vice presidente Ancc-Coop Enrico Migliavacca e dal Presidente di Coop Italia Marco Pedroni.
Il Rapporto che fotografa lo stato di salute dei consumi nel nostro Paese inserito in un contesto europeo e internazionale, approfondisce le modalità con cui le famiglie reagiscono alla nuova realtà economica, le differenze che caratterizzano i diversi territori del nostro Paese e il confronto con quanto accade negli altri grandi Paesi europei.
Vi si sottolinea che il calo dei consumi persisterà per tutto il 2013 e proseguirà nel 2014: “Nessun ottimismo per il prossimo futuro – si legge – Infatti, nonostante veniamo da anni di flessioni elevate, la ripresa dei consumi alimentari e non alimentari non ci sarà: la stima Coop per il prossimo anno è di un ulteriore -0.5% nel food e -6,1% nel non-food, su una base 2013 già in significativa contrazione”.
I consumi nel 2013 registreranno una flessione dell’1,2% nell’area food e del 7,5% nel non food, anche se nel 2012 la flessione è stata più marcata con il -3,2% nel food e -6,3% nel non food, e il 2014 continuerà con il segno negativo rispettivamente per lo 0,5% e il 6,1%.
Senza un’azione del Governo a sostegno della domanda interna e un forte impegno degli operatori economici più importanti, a partire dalle banche, chiamati a sostenere le famiglie, ammonisce il Rapporto, non ci sarà una ripresa significativa del Paese. Aumentare l’IVA, come realizzare qualsiasi non selettivo altro provvedimento fiscale, sarebbe un errore molto grave. D’altro canto è indispensabile che l’industria e la distribuzione italiane lavorino insieme per sostenere la ripresa: l’industria può ridurre i prezzi e i margini in percentuale, scommettendo su un possibile aumento dei volumi, mentre la distribuzione deve trasferire senza aggravi il valore sui consumatori.
L’Italia è ancora nel tunnel della crisi e i bilanci delle famiglie sono sotto pressione. Il quadro complessivo non induce al facile e ingiustificato ottimismo: la diminuzione del reddito disponibile reale nell’arco di appena 6 anni ha superato il 10% (-10,2%) frutto della morsa contrapposta fra salari e stipendi fermi e fiscalità arrivata nel 2012 al valore massimo degli ultimi trent’anni, la disoccupazione è alle stelle (ha toccato il 12% nei primi mesi del 2013, ai massimi dal 1977) e sono soprattutto i più giovani sotto i 18 anni di età a rischiare l’esclusione sociale. Peggio di noi in Europa solo i coetanei bulgari, rumeni, ungheresi e le piccole repubbliche ex-sovietiche del Baltico; meglio di noi persino i greci e gli spagnoli.
“C’è poco di che essere soddisfatti e non a caso anche l’indicatore della fiducia in una possibile ripresa segna timidi scostamenti in positivo. Il Bel Paese ha perso il suo appeal e se può ancora vantare il primato della più alta età media della popolazione rispetto all’UE (l’indice di vecchiaia che rappresenta il peso della popolazione anziana ha toccato quota 108), segno che in Italia se non altro si vive di più, ha ben poche altre frecce al suo arco. Come gli altri Paesi della periferia europea dove la crisi ha permeato maggiormente le abitudini della popolazione, la contrazione sulle capacità di consumo è stata violenta e continua. Mentre nei Paesi del centro Europa i consumi hanno di nuovo superato i livelli pre-crisi, in Italia l’81% della popolazione (ma era il 69% appena due anni fa) dichiara di aver cambiato le proprie abitudini di consumo per risparmiare sulla spesa”.
Sono cambiate anche le procedure di acquisto: il prodotto si vede in negozio, ma si compra on line (è il caso dell’abbigliamento che nell’on line registra un +41% o dei prodotti tecnologici +19%). Addirittura, nemmeno si compra, ma si baratta o si ottiene gratis: è il fenomeno in crescita della sharing economy in cui l’accesso al bene è più importante del suo possesso.
E se alla fine qualcosa si trova nel carrello della spesa un po’ a sorpresa si scopre che l’italiano ama sempre più il cibo etnico (il carrello fa un balzo avanti di un +6%) e ha tirato fuori un’anima tutta verde: l’insalata si fa nell’orto (proprio) e sullo scaffale si privilegia il biologico.
Gli italiani bandiscono anche le spese i “vizi”: per i vini è una débâcle (-4% nell’ultimo anno), gli aperitivi si riducono del 5%, superalcolici, amari e liquori oltre il -3%, mentre per il segmento fumo la lancetta ritorna al 1973 per il numero di sigarette fumate (-14% in 2 anni). Gli italiani si negano anche il piacere del caffè, con una flessione a valore pro capite del comparto pari al 21% in sei anni.
“Venere ancora resiste, ma solo grazie a un piccolo aiuto (tra i pochi segni positivi il +6,4% degli accessori per il sexual entertaiment, quasi +8% in due anni per Viagra e simili)”.