Risorse e rifiuti Scienze e ricerca Sostenibilità

Shopper biodegradabili: non si decompongono se scorrettamente smaltiti

Uno Studio dell’Università di Plymouth che ha testato 5 tipologie di buste per la spesa rilasciate nell’ambiente, scoprendo che gli shopper biodegradabili dopo quasi 3 anni erano in grado di sopportare dei carichi di spesa, rischia di essere fuorviante per il consumatore che potrebbe essere indotto a credere che non ci siano differenze tra le diverse tipologie.

Un studio condotto dall’Università di Plymouth ha dimostrato che shopper biodegradabili sono ancora in grado di trasportare la spesa dopo essere stati esposti nell’ambiente per tre anni.

Così sintetizzati, i risultati dello studio condotto da ricercatori dell’Unità di Ricerca Internazionale sui Rifiuti Marini della Scuola di Scienze Biologiche e Marine presso l’Università di Plymouth (Gran Bretagna) rischiano di rinfocolare polemiche che non si sono sopite del tutto, da quando sono scattati i divieti sugli shopper in plastica, e di accenderne di nuove ora che l’accumulo dei rifiuti di plastica è diventata un’emergenza globale.

In realtà, i risultati sono diversi a seconda della tipologia del sacchetto e delle condizioni ambientali a cui sono stati sottoposti, confermando, peraltro, che il termine “biodegradabile” può trarre in inganno i consumatori e far credere che le buste così etichettate rilasciate inopinatamente nell’ambiente si degradino in un tempo relativamente breve.

Per lo Studio Environmental Deterioration of Biodegradable, Oxo-biodegradable, Compostable, and Conventional Plastic Carrier Bags in the Sea, Soil, and Open-Air Over a 3-Year Period”, pubblicato il 29 aprile 2019 su Environmental Science & Technology, i ricercatori hanno testato 5 diverse tipologie di shopper acquistate nei supermercati inglesi: una convenzionale in polietilene ad alta densità; una compostabile; 3 biodegradabili, delle quali 2 oxodegradabili (plastiche a cui vengono aggiunti, nel processo produttivo, additivi per accelerarne la frammentazione in frazioni minuscole per effetto della radiazione ultravioletta o del calore, per velocizzarne, cioè, la disintegrazione) e l’altra biodegradabile fabbricata in modo diverso per promuoverne la scomposizione.

Tali shopper sono stati rilasciati nell’ambiente esterno il 10 luglio 2015 (mare, terra e aria): alcune buste sono state tagliate a strisce e collocate in reti, altre sono state immesse intere nella stessa situazione di prova. Per il test in acqua, i campioni sono stati immersi a 3 metri di profondità nel porto di Plymouth; per quello nel terreno è stato prescelto il giardino dell’Università alla profondità di 25-30cm; per quello all’aria si è scelta la collocazione lungo il muro di cinta del giardino, con esposizione a sud. Un ulteriore sito è stato collocato nel laboratorio dell’Università come controllo e verifica.

I campioni sono stati monitorati regolarmente per valutare l’integrità superficiale, dei segnali di deterioramento, la resistenza alla trazione e la composizione chimica.

I campioni di shopper tagliuzzati o interi collocati al porto, dopo un mese avevano in superficie un biofilm microbico in superficie e il campione compostabile dopo 3 mesi era scomparso.

Quelli all’aria lungo il muro del giardino dopo nove mesi erano divenuti troppo fragili per poter essere ulteriormente testati o si erano disintegrati in microplastiche.

Quelli interrati sono rimasti intatti, anche se i campioni compostabili, pur essendo rimasti immutati fisicamente, dopo 27 mesi, non erano stati in grado di reggere alcun peso senza strapparsi.

Dopo tre anni, sono rimasta davvero stupita dal fatto che alcuni sacchetti potessero ancora sopportare un carico di spesa, e che potesse farlo quelli etichettati biodegradabili era ancora più sorprendente – ha dichiarato Imogen Napper che ha condotto la ricerca come parte per il suo Dottorato di ricerca – Quando si vede qualcosa etichettato in tal modo, si presume che si degraderà più rapidamente rispetto alle borse convenzionali. Ma, dopo tre anni, la nostra ricerca dimostra che potrebbe non essere così”.

Nella ricerca, gli scienziati citano un rapporto del 2013 della Commissione UE in cui si è calcolato che ogni anno siano stati immessi circa 100 miliardi di buste di plastica, anche se vari Paesi (inclusa l’Italia) avevano introdotto misure per la loro riduzione. Peraltro, l’Università di Plymouth ha condotto nel corso degli ultimi anni vari studi sull’impatto delle plastiche negli ecosistemi marini, dimostrando che le microplastiche possono essere assorbite dagli organismi marini e rilasciare sostanze e batteri potenzialmente dannosi.

Il professor Richard Thompson, biologo marino insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico dalla regina Elisabetta, a Capo dell’Unità di Ricerca Internazionale sui Rifiuti Marini dell’Università di Plymouth e co-autore dello Studio, ha precisato che lo Studio non dovrebbe essere letto come argomento contrario allo sviluppo dei prodotti biodegradabili o compostabili.
Questa ricerca solleva una serie di domande su ciò che il pubblico potrebbe aspettarsi quando certi prodotti vengono etichettati come biodegradabili – ha ribadito Thompson – Abbiamo dimostrato che i materiali testati non presentavano alcun vantaggio consistente, affidabile e rilevante nel contesto dei rifiuti marini. Ciò che interessa è che questi nuovi materiali presentino delle sfide nel riciclaggio: il nostro studio sottolinea la necessità di standard relativi ai materiali degradabili, delineando chiaramente il percorso di smaltimento appropriato e i tassi di degrado che ci si può aspettare“.

Sullo Studio, o meglio sul modo con cui i media ne hanno riportato i risultati, è intervenuta  Assobioplastiche (Associazione Italiana delle bioplastiche e dei materiali biodegradabili e compostabili) che in una nota stampa ha sottolineato che “I risultati pubblicati da Imogen E. Napper e Richard C. Thompson non sono quindi sorprendenti per gli esperti di chimica dei polimeri e di biodegradazione, ma anzi confermano che la decisione della UE (direttiva SUP) di proibire tutti i materiali tradizionali additivati con acceleranti la frammentazione è corretta. Assobioplastiche ritiene inaccettabile che uno studio che conferma un’ulteriore distinzione netta tra materiali in termini di proprietà di biodegradazione e corretta utilizzabilità di tale caratteristica venga strumentalizzato per comunicare un messaggio scorretto. La soluzione non è la biodegradazione in quanto tale (che comunque i sacchetti in bioplastica compostabile possiedono a differenza degli altri), quanto la ricerca e l’applicazione di modelli di corretta gestione dei rifiuti organici, di cui l’Italia è esempio virtuoso”.

In copertina: Shopper Oxo-biodegradabile immerso in ambiente marino (a sinistra) o seppellito nelle terreno (a destra) per 3 anni (fonte: Napper, I.E. e Thompson, R.C., 2019).

Articoli simili

Lascia un commento

* Utilizzando questo modulo accetti la memorizzazione e la gestione dei tuoi dati da questo sito web.