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Inquinamento marino da microplastiche: anche nelle cozze di località remote

Copertina Studio NIVA

L’inquinamento marino da microplastiche è un’emergenza globale. Lo conferma la pubblicazione dell’Istituto norvegese per la ricerca applicata alle acque, come peraltro, sottolineato durante l’ultima Assemblea Ambiente delle Nazioni Unite. Anche se non si conoscono i reali pericoli da tale contaminazione sulla salute umana, è certo che le microplastiche che immettiamo nelle acque di tutto il mondo, attraverso la catena alimentare, ci ritornano nel piatto.

Nel corso dell’Assemblea Ambiente delle Nazioni Unite (UN EA), svoltasi in Kenya (Nairobi, 4-6 dicembre 2017) e che ha avuto per tema “Verso un pianeta senza inquinamento”, 193 Paesi hanno sottoscritto una Dichiarazione politica sulle misure realistiche per affrontare l’inquinamento a, in tutte le sue forme, in aria, nei suoli, nei mari “dove ogni anno vengono scaricati dai 4,8 ai 12,7 milioni di tonnellate di plastiche”.

L’inquinamento da plastiche e microplastiche è ormai considerato una delle emergenze ambientali globali, tant’è che 193 Paesi hanno sottoscritto. nel corso della 3a Assemblea Ambiente delle Nazioni Unite (Nairobi, 4-6 dicembre 2017), che ha avuto per tema “Verso un pianeta senza inquinamentouna Dichiarazione politica sulle misure realistiche per affrontare l’inquinamento dell’aria, del suolo e delle acque, in particolare nei mari “dove ogni anno vengono scaricati dai 4,8 ai 12,7 milioni di tonnellate di plastiche.

Numerosi e recenti studi hanno confermato che l’inquinamento da microplastiche non interessa solo la fauna più diffusa e grande dei mari, ma anche quella più minuta e recondita che vive negli abissi oceanici.

Per ultimo, è stato pubblicato lo scorso dicembre 2017 lo Studio “Testing of methodology for measuring microplastics in blue mussels (Mytilus spp) and sediments, and recommendations for future monitoring of microplastics (R & D-project )” che l’Istituto norvegese per la Ricerca applicata alle Acque (NIVA).

La ricerca, condotta su incarico dell’Agenzia dell’Ambiente (Miljødirektoratet), riporta i risultati di un progetto volto ad identificare i metodi più adeguati per il monitoraggio della presenza di microplastiche nei sedimenti marini e nelle cozze che, a differenza del pesce e di altre forme di vita marina che si muovono costantemente, vivono sul fondo del mare e lì rimangono, costituendo perciò utili indicatori di dove esattamente è diffuso l’inquinamento da microplastiche di più piccole dimensioni (<1 mm).

Al di là degli aspetti metodologici utilizzati, i risultati sono un’ulteriore prova che l’inquinamento delle plastiche non si limita all’inquinamento marino, ma potrebbe entrare nel corpo umano attraverso il cibo che mangiamo. I ricercatori hanno rinvenuto, infatti, microplastiche in più del 76,6% delle cozze blu (Mytilus spp) campionate in vari punti lungo la costa norvegese e ogni mollusco conteneva in media 1,84 frammenti.

Ancora più sorprendente è stata la scoperta che i mitili prelevati a Skallneset, una località della contea di Finnmark (la Lapponia norvegese), lungo la costa prospiciente il Mar di Barents (Mar Glaciale artico) e lontana da qualsiasi attività di tipo urbano di grandi dimensioni e vicino al Parco Nazionale di Varangerhalvøya, sono risultati più contaminati degli altri con una media di 4,3 frammenti.

Tabella Studio Niva
Tabella Studio Niva

 

Non sappiamo esattamente perché le cozze di Skallneset abbiano valori così elevati, ma abbiamo ipotizzato una serie di potenziali motivi” ha dichiarato Amy Lusher biologa esperta di inquinamento marino e principale autore della ricerca, nonché consulente della FAO per la quale Agenzia dell’ONU ha curato il Technical Paper “Microplastics in fisheries and aquaculture” pubblicato la scorsa estate.

“è molto probabile che le variabili ambientali influenzino la distribuzione all’interno della colonna d’acqua delle microplastiche trascinate a nord dai venti e dalle correnti oceaniche provenienti dal Nord America e dallEuropa. Con il campionamento ripetuto può essere possibile vedere se il valore cambia nei diversi periodi dell’anno, negli intervalli di marea ecc.”.

Gli studi che riguardano il possibile effetto tossicologico generato dall’ingestione di cibo contaminato con microplastiche e microfibre di plastica nell’uomo sono ancora agli albori, tuttavia precedenti analisi hanno indicato che le particelle di plastica possono assorbire e rilasciare sostanze e batteri potenzialmente dannosi.

Commentando i risultati dello Studio, il Prof. Richard Thompson dell’International Marine Litter Research Unit presso l’Università di Plymouth (Gran Bretagna), di cui fa parte la stessa Lusher, ha affermato che “L’esposizione umana alle microplastiche nei prodotti ittici è probabilmente inferiore a quella quotidiana alle materie plastiche, dai giocattoli alle giacche di pile. Al momento è un motivo di preoccupazione piuttosto che un effettivo allarme per il consumo umano. È tuttavia un segnale che dobbiamo fare qualcosa per ridurre l’input della plastica verso l’oceano”.

Il video postato sul suo blog “The Plancton Pundit” da Richard Kirby, anche lui dell’Università di Plymouth, che mostra il momento in cui un tipo di plancton (Sagitta setosa) ingerisce le microplastiche, è stato tra i più visti, confermando la possibilità che la contaminazione a livello umano possa entrare attraverso la catena alimentare.

Quando l’ho filmato ho pensato che fosse qualcosa da trasmettere al pubblico per sensibilizzarlo al problema delle plastiche nel mare – ha dichiarato Kirby – Le persone conoscono il loro impatto sui grandi animali marini, come balene, foche e uccelli, ma questa era la prima volta che si poteva vedere che ‘il genio era uscito dalla bottiglia’  “.

Curiosamente, la maggior parte delle particelle rinvenute nei mitili campionati dal NIVA era di colore blu (39%) e i polimeri più comuni erano fibre semi-sintetiche composte da cellulosa modificata chimicamente.

Foto Studio NIVA
Foto Studio NIVA

C’è anche chi vorrebbe scoprire se le microplastiche possano indurre cozze o ostriche a produrre perle che in natura spesso vengono generate per contrastare le sostanze irritanti naturali come la sabbia.
Le perle potrebbero far aumentare il valore di alcuni molluschi – ha concluso ironicamente la Lusher – ma anche spezzare i denti degli sfortunati commensali”.

In copertina: Foto: Janne Kim Gitmark, NIVA

Copertina Studio Inquinamento da microplastiche nelle cozze della costa norvegese

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