Un nuovo studio che ha considerato oltre all’integrità dell’habitat, anche l’integrità faunistica e funzionale, ha rilevato che, rispetto a precedenti stime che indicavano tra il 20-40% la integrità ecologica, solo tra il 2-3% degli ecosistemi è ancora intatto e di questi, solo l’11% rientra nelle aree protette esistenti.
Solo tra il 2- 3% della superficie terrestre del Pianeta può essere considerata ecologicamente intatta. Una percentuale drasticamente inferiore rispetto a valutazioni precedenti che stimavano essere compresa tra il 20-40%, perché tiene conto della perdita di specie dall’habitat intatto e della riduzione delle popolazioni di specie. Tuttavia il reinserimento di specie negli habitat potrebbe ripristinare l’integrità ecologica di circa il 20% della Terra.
È la sintesi dello Studio “Where Might We Find Ecologically Intact Communities?” pubblicato su Frontiers in Forest and Global Change da un folto gruppo di scienziati in occasione della Giornata Mondiale della Terra 2021 che ha per tema quest’anno “Ripristinare la nostra Terra”.
Più di 30 anni fa, le aree “wilderness” – aree naturali che non sono state modificate in modo sostanziali dall’uomo – sono state identificate come prioritarie per compiere azioni di conservazione e protezione, ma solo recentemente c’è stata una spinta a definire come misurare la wilderness, con un’attenzione particolare sugli habitat intatti. L’integrità degli ecosistemi naturali è stata riconosciuta anche dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla Biodiversità (CBD) come obiettivo importante per il Quadro di misure da intraprendere per il decennio post-2020, che saranno definite alla Conferenza della Parti (CBD-COP15) che si svolgerà in Cina (Kunming, 17-30 maggio 2021).
“Sappiamo che si sta perdendo sempre più habitat intatti i cui valori sono stati dimostrati sia per la biodiversità che per il benessere delle persone – ha affermato Andrew Plumptre del Segretariato Key Biodiversity Areas (KBA) di Cambridge e principale autore dello Studio – Tuttavia la nostra analisi ha rilevato che gran parte di ciò che consideriamo un habitat intatto manca di specie che sono cacciate dall’uomo o perdute a causa di specie invasive o malattie“.
Attualmente non esiste una definizione comune di “intactness”. Valutazioni del passato, incentrate sulla mappatura dell’influenza umana sull’integrità dell’habitat, hanno creato mappe di impatto antropico che stimavano indipendentemente che tra il 20% e il 40% della superficie terrestre del Pianeta sia rimane esente da gravi interferenze umane (insediamenti umani, strade, illuminazione e inquinamento acustico).
Nel nuovo studio, Plumptre e colleghi hanno adottato un approccio diverso. Invece di concentrarsi sull’impatto umano, hanno analizzato i siti del Criterio C delle KBA, secondo cui una comunità ecologica intatta ha il pieno complemento di specie note per essere presenti in un particolare sito nelle loro naturali quantità (cioè assenza di perdita di animali in quella zona), rispetto a un parametro di riferimento regionale appropriato.
Come punto di riferimento, gli autori hanno scelto l’anno 1500, poiché questa è la data di riferimento per la valutazione delle estinzioni delle specie all’interno per la Lista Rossa della IUNC per le specie minacciate. Oltre all’integrità dell’habitat, gli autori hanno anche valutato l’integrità faunistica (cioè, senza alcuna perdita di specie animali) e l’integrità funzionale (nessuna perdita di densità animale al di sotto di un livello che influirebbe sul funzionamento sano di un ecosistema).
Gli autori hanno esaminato come l’applicazione di queste 3 misure di “intactness” riduca il numero di siti che potrebbero essere qualificati secondo il Criterio C KBA, scoprendo che solo tra il 2% e il 3% della superficie terrestre si qualifica come sito funzionalmente intatti, 10 volte di meno di quanto stimato in precedenza.
Secondo gli scienziati, è preoccupante che solo l’11% dei siti misurati sia coperto da aree protette e molti di questi siti coincidono con territori gestiti da comunità indigene che svolgono un ruolo cruciale nel mantenerle. Molti altri siti intatti includono la Siberia orientale e il Canada settentrionale per i biomi boreali e della tundra, parti delle foreste tropicali del bacino dell’Amazzonia e del Congo e il deserto del Sahara.
Attraverso una reintroduzione mirata di specie che sono state perse in aree in cui l’impatto umano è ancora basso è possibile un ripristino fino al 20% della superficie terrestre, a condizione che cessino le minacce alla loro sopravvivenza e i numeri possano essere ricostruiti a un livello in cui soddisfano il loro ruolo funzionale.
“È stato dimostrato che l’habitat intatto ha importanti vantaggi sia per la fauna selvatica che per le persone e, di conseguenza, deve essere un obiettivo critico dei negoziati in corso della Convenzione sulla diversità biologica post-2020 quadro globale sulla biodiversità – ha aggiunto Plumptre – In futuro, l’identificazione delle aree secondo il Criterio C della KBA può aiutare a focalizzare l’attenzione su questi siti per la conservazione e il restauro. È necessario il riconoscimento di questi luoghi speciali all’interno di habitat in cui si abbia la piena ‘intactness’ funzionale, e si preveda di concentrare la reintroduzione nelle aree in cui l’integrità ecologica potrebbe essere ripristinata“.
“Al momento, è stato dato avvio al Decennio per il ripristino degli ecosistemi e tutti stanno pensando a come recuperare gli habita naturali per renderli migliori – ha concluso Plumptre – Ma è importante non solo concentrarsi sul ripristino dell’integrità degli habitat, ma anche sula loro integrità faunistica e in particolare a quella funzionale”.
In copertina: Hwange National Park (Zimbabwe). Fonte: https://travelafricamag.com/