Secondo il brief presentato alla Conferenza “SwitchMed” di Barcellona da Global Footprint Network nessun Paese della regione mediterranea soddisfa i due requisiti minimi essenziali per lo sviluppo sostenibile globale: rimanere all’interno delle capacità ecologiche della Terra e soddisfare il benessere per i suoi abitanti.
A “SwitchMed Connect 2015“, la prima Conferenza annuale che riunisce tutte le parti interessate del Mediterraneo per costruire sinergie, scambio di conoscenze ed aumentare le innovazioni eco&social, in corso di svolgimento a Barcellona (29-30 ottobre 2015), Global Footprint Network, l’organizzazione internazionale che si occupa di contabilità ambientale tramite l’Impronta Ecologica al fine di supportare le decisioni politiche in un mondo caratterizzato dalla limitatezza delle risorse naturali, ha presentato “How can Mediterranean societies thrive in a era of decreasing resources?” (Come possono le società mediterranee prosperare in un’epoca di risorse in continua diminuzione?).
Il breve Rapporto, realizzato dal think tank Mediterranean Ecological Footprint Initiative, con il sostegno finanziario della Fondazione filantropica svizzera MAVA, indica che nessun Paese della regione Mediterranea soddisfa le due condizioni minime per lo sviluppo sostenibile: vivere all’interno delle disponibilità di risorse naturali del Pianeta, assicurando il benessere dei suoi residenti.
Global Footprint Network monitora la prima condizione ovvero misura il consumo di risorse rinnovabili e di servizi ecologici (Ecological Footprint) rispetto alla capacità della Terra di soddisfare tale richiesta (biocapacità), mentre la seconda condizione viene definita dall’Indice di Sviluppo Umano (HDI) delle Nazioni Unite che segue il benessere umano Paese per Paese.
Ebbene, dal Rapporto si evidenzia che nell’intera area del Mediterraneo si stanno utilizzando risorse naturali circa 2,5 volte in più di quelle che i suoi ecosistemi possono fornire, mentre al contempo, come indica lo HDI, la maggior parte dei Paesi mediterranei negli ultimi anni ha migliorato la qualità della vita per i suoi residenti.
Nel Documento si sottolinea che le diete ad alta intensità di proteine sono tra i principali fattori che stanno determinando la crescente impronta ecologica della regione, ma anche una maggior efficienza delle abitazioni e dei trasporti urbani potrebbe offrire una grande opportunità per rendere la regione più sostenibile, come dimostra l’analisi dell’impronta di 12 città.
“Sulla scia dell’approvazione il mese scorso da parte delle Nazioni Unite dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, è incoraggiante osservare che lo sviluppo umano è progredito in tutti i Paesi del Mediterraneo – ha dichiarato Alessandro Galli, Direttore per la regione mediterranea di Global Footprint Network – Tuttavia, soddisfare appieno la ‘vision ‘della Strategia Mediterranea per lo Sviluppo Sostenibile, garantendo un alta qualità della vita, senza degradare l’ambiente richiede di tener pienamente conto dei limiti fisici a tutti i livelli del processo decisionale. La buona notizia è che concentrando l’obiettivo su cibo, trasporti ed abitazioni, la regione ha numerose opportunità di gestire le risorse in maniera più sostenibile e diventare economicamente più resiliente“.
L’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite (HDI) misura il livello di sviluppo di una nazione basata sulla speranza di vita, sull’istruzione e sul reddito medio dei suoi abitanti. Su una scala da zero a uno, il Programma di sviluppo dell’ONU (UNDP) definisce 0,7 come la soglia per un elevato sviluppo (0,8 per molto elevato). Dal 2000, la maggior parte dei Paesi del Mediterraneo ha oltrepassato quel limite. Oggi, solo Marocco ed Egitto hanno un punteggio inferiore a 0,7, anche se i loro punteggi sono in aumento.
Il concetto “all’interno delle capacità naturali” è quel che misura l’impronta ecologica che calcola la somma delle richieste concorrenti sulle superfici produttive del pianeta, tra cui cibo, fibre, legname, sequestro di CO2 e spazi per le infrastrutture.
Sulla base degli attuali livelli di popolazione, la Terra dispone solo di 1,8 ettari globali (gha) di superficie biologicamente produttiva a persona. Così, anche se le risorse nazionali variano ampiamente, l’impronta ecologica media per persona a livello mondiale dovrebbe scendere sensibilmente al di sotto di questa soglia per ospitare l’aumento della popolazione e per offrire lo spazio necessario far sopravvivere le specie, viceversa, la maggior parte dei Paesi del Mediterraneo (eccetto la Palestina, Marocco e Siria) ha un’impronta pro-capite fino a 1,5 volte superiore alla soglia di 1,8 gha.
L’impronta ecologica alimentare media di un residente del Mediterraneo è di circa 0,9 gha pro capite, con un range da 0,6 gha a 1,5 gha a seconda dei Paesi, valore superiore a quello di paesi come l’India (0,4), la Cina (0,5), Costa Rica (0,6 gha) e perfino della Germania (0,8 gha). Le ragioni di questo livello relativamente elevato di footprint alimentare della regione mediterranea sono da ricercarsi nella scarsità d’acqua, bassa produttività agricola, crescente dipendenza dalle importazioni di alimenti e l’abbandono della tradizionale, sana ed ecologica dieta. Invece di consumare cereali, verdure e oli, tipici della dieta mediterranea, che hanno un basso impatto, i Paesi stanno consumando più carne e prodotti lattiero-caseari, che hanno un footprint più elevato. Migliorare, quindi, la produttività agricola, ridurre i rifiuti alimentari e promuovere un’alimentazione più sana e meno ricca di proteine animali, costituiscono delle opportunità per ridurre l’impronta ecologica della regione.
Nel rapporto c’è anche l’analisi dell’impronta ecologica di 12 città: Barcellona e Valencia, in Spagna; Genova, Napoli, Palermo e Roma, in Italia; Tunisi, in Tunisia; Atene e Salonicco, in Grecia; Antalya e Izmir, in Turchia; Il Cairo, in Egitto.
Per diversi Paesi della Regione, lo studio ha trovato che uno o due grandi aree urbane pesano notevolmente sulla impronta ecologica nazionale, con Il Cairo su tutte, seguito da Barcellona e Roma. A livello pro-capite è Genova su tutte le altre città prese in esame a prevalere, con Atene e Roma sul podio di questa non sostenibile classifica, mentre Antalya, Il Cairo e Izmir sono le città con l’impronta più bassa, tenendo conto del numero di residenti.
La domanda di risorse naturali pro-capite di Atene, la cui popolazione è di circa un terzo di quella dell’intera Grecia, supera del 22% la capacità del Paese; i residenti di Il Cairo (circa il 16% della popolazione dell’Egitto) richiedono circa l’85% della biocapacità del Paese nel suo complesso. I trasporti costituiscono il più importante driver di impronta ad Atene, assorbendo circa il 36% della biocapacità del Paese, per cui adeguate politiche municipali al riguardo potrebbero probabilmente portare a una notevole riduzione dell’impronta ecologica della Grecia.
“Le città sono centri di attività in grado di permetterci di massimizzare le risorse attraverso politiche di trasporto, abitative e di gestione energetica – ha concluso Galli – Tuttavia, le città fungono anche da ascensore sociale, consentendo ai residenti di migliorare la loro qualità della vita e, di conseguenza, di aumentare anche i consumi. La scelta tra queste due dinamiche deve essere pienamente compresa e gestita per garantire che le città ci aiutino a progredire, piuttosto che allontanarci dalla sostenibilità“.